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Anche nel 2005 sono stati assegnati i premi IGnobel, che non hanno nulla d'ignobile, ma sono ricerche curiose che prima fanno sorridere, poi pensare. Su "Kilpoldir?" ce ne siamo già occupati in passato (vedi:La regola dei 5 secondi ; Ignobel per la pace ) e ci ritorniamo anche quest'anno segnalando il premio per la chimica assegnato ad una ricerca dell'università del Minnesota e del Wisconsin per avere risolto un problema scientifico di lunga data: si nuota più velocemente nell'acqua o in una sbobba sciropposa?
Può sembrare una scemenza, ma la questione fu posta da Isacco Newton al tempo della stesura dei Principia Matematica e lasciata irrisolta, visto il disaccordo teorico inconciliabile fra lui e il suo amico Chistiaan Hyugens.
Insomma nuotare in un liquido più viscoso dell'acqua rallenta il nuotatore o gli permette migliori prestazioni? Finalmente, ora lo sappiamo: la ricerca, premiata con l'ignobel per la chimica, ci ha fornito una risposta incontrovertibile.
L'esperimento è stato condotto con il maggiore rigore scientifico, dispendio di mezzi e, soprattutto, una grande pazienza per ottenere il permesso di riempire (e poi svuotare nele fogne) una regolare piscina lunga 25 metri con una specie di sciroppo denso il doppio della acqua. Come addensante dell'acqua è stata usata della comune gomma di guar detta anche guaram che compare, ad esempio, fra gl'ingredienti delle salse industriali con la sigla E412 ed è ricavata da una leguminosa (Cyamopsis tetragonoloba).
Come cavie, si sono offerti 16 giovani nuotatori che hanno nuotato al massimo delle loro possibilità sia nell'acqua pura che in quella resa viscosa con il guaram.
E il risultato? Avevano torto sia Newton che il suo amico dissenziente. L'acqua densa non migliora né peggiora le prestazioni dei nuotatori, perché la maggiore viscosità rende più faticoso nuotare, ma contemporaneamente, rende proporzionalmente più efficaci le bracciate.
Chi l'avrebbe detto? Potenza del metodo sperimentale, verrebbe da dire, con quel residuo ottimismo che dobbiamo tenerci caro per poter campare anche noi agnostici, in questi tempi duri.
Mi resta un dubbio: meglio nuotare in mare o in piscina, per uno come me che se ne infischia delle prestazioni velocistiche e vuole solo sguazzare piacevolmente per stuzzicare l'appetito, prima di una grigliatina di pesce?
Sperimentalmente parlando, se le onde e il vento non sono eccessive, l'acqua è limpida, il vicino ristorante è silenzioso e fresco e pesce e vino bianco sono ancora più freschi, meglio il mare.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) lun 19 dicembre 2005 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
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Ogni tanto ci capita di passare per Correggio. Qualche volta ci fermiamo anche a pranzo, come sempre, a caso. Una volta, durante la bella stagione, ci ha divertito molto la conversazione fra quattro donne sedute ad un tavolo accanto al nostro nella veranda all'aperto: in dialetto e ad alta voce, teneva banco una delle quattro che raccontava come avesse trasformato casa sua in una specie di ristorante per figli e nipoti, molto indaffarati, ai quali, a pagamento, preparava da mangiare ad orari diversi con un'attività quasi professionale. Le quattro pensionate, non certo baby, esprimevano un'energia e un'allegria straordinarie, quasi contagiosa.
Da piccolo durante lo scorcio di vacanze estive che trascorascorrevo a Carpi, Correggio era una meta di sgroppatine in bici, con il pretesto di andare a prendere un gelato. In un gruppetto di amici, facevamo i 18 kilometri assolutamente pianeggianti, ma assurdamente tortuosi, lungo una stradina con pochissimo traffico, quasi una ciclabile in aperta campagna. Oggi tutto il paesaggio è stravolto e quasi irriconoscilbile: il progresso che avanza.
Il corso centrale di Correggio, però, conserva ancora la vecchia pavimentazione con ciotoli di fiume interrotta dalle piste di pietra liscia: una benedizione per i ciclisti, tuttora numerosi. Alcuni interni delle vecchie case sono state restaurate con buon gusto, ricuperando al pubblico passaggio aree cortilive, corridoi e logge, un tempo private. In uno di questi cortiletti di passaggio si trova l'inquietante scultura in legno di cui riproduco la sommità, qui accanto.
La perla della cittadina, un po' più esterna, resta il Palazzo dei Principi, sede della corte dei Da Correggio all'inizio del '500, restaurato con cura dopo un lungo abbandono ed il terremoto che ha colpito duramente l'intera zona nel1996 e nel 2000.
Vale una visita rilassata, sia il bel cortile quadriporticato con un bel leone funerario romano del primo secolo DC, sia il museo al primo piano dove si conservano alcuni arazzi preziosi, acquisiti all'epoca dello splendore della corte dei Da Correggio, e una rara madonna (con il bambino?) mutilata, in teracotta policroma.
Se si ha la fortuna, come è accaduto a noi, unici visitatori di un sabato pomeriggio, di conversare con il giovane custode, cortese, competente e discreto, si gusta ancora di più il materiale esposto. Purtroppo mancano le numerose opere del Correggio che dovevano ornare il palazzo durante il Rinascimento e che ora arricchisco i musei di mezzo mondo.
Alcune foto (correggio.pdf) a corredo di quanto ho scritto
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) sab 17 dicembre 2005 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Scambiava barattoli imbrattati di grumi di biacca con caramelle croccanti incartate in carta crespa, ma non ce la faceva ugualmente a sbarcare il lunario. Giunto ad un passo dal farsi monaco in una delle religioni maggiori, dovette desistere, quando si accorse che la soluzione dei suoi problemi avrebbe contrastato con il suo agnosticimo atavico. Tuttavia, sostenuto da una forte tempra e da sani principi, non si lasciò scoraggiare dal contrattempo.
Ormai deciso ad imprimere alla sua vita una svolta decisiva e definitiva, pensò che avrebbe trovato una soluzione migliore leggendo un manuale. "Come intraprendere una carriera sfolgorante e raggiungere un ineludibile successo" gli parve adeguato, ma il libraio ambulante non volle fargli credito, in attesa di esserne lautamente ripagato. La prospettiva dell'immancabile fortuna di cui, a breve, avrebbe goduto il suo debitore non distolse il bouquiniste dalle sue meschine pretese immediate. L'evento imprevisto appannò la sua fiducia nell'autentico valore del manuale, ma lo scampato pericolo di un acquisto incauto lo rese euforico.
Mentre svoltava l'angolo con aria giustamente pimpante, la fortuna gli si presentò nella forma di una fata bionda, adeguatamente attillata e minigonnosa, che, scorgendone una disponibilità insperata all'ascolto, lo convinse ad accettare una carta di credito golden e, per soprammercato, lo invitò a brindare al suo successo di venditrice: era il suo centesimo cliente e per lei valeva una promozione e, quasi certamente, rappresentava anche l'inizio di una carriera rampante.
La fortuna ormai era girata a suo favore. A dispetto della sua inesperienza, seppe trovare nella sua indole brillante e nell'euforia del momento la giusta ispirazione per l'impiego più proficuo della nuova carta. Fatti pochi passi, s'infilò in una sartoria maschile donde uscì, un'ora dopo, vestito come un milord, giusto in tempo per approfittare della cerimoniosa accoglienza che gli fu tributata nel ristorante accanto: un locale confortevolmente lussuoso dove si lasciò consigliare costose prelibatezze e vini adeguati.
Ne uscì satollo, soddisfatto e pronto ad imprese ben maggiori, sostenuto anche da un'ebrezza alcolica che gli permetteva di volare, quasi.
Una nuova vita lo attendeva radiosa, ne era certo e sarebbe stato sorpreso se, in quel momento, avesse potuto leggere le cronache locali del giorno dopo. Infatti, i giornali riferirono che un giovane e ricco signore aveva trovato la morte, investito sulla soglia del "Majestic" dall'auto del ministro della Salute, cliente abituale del celebre ristorante. L'identificazione dello straniero era tuttora in corso perchè, come di consueto fra i ricchi eccentrici, non aveva in tasca né denaro, né documenti, eccetto un'inutile carta di credito priva di validità.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 15 dicembre 2005 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Il "bugiardino", come lo chiamano gli addetti ai lavori, sarebbe quel foglietto ripiegato ad organetto che impedisce un comoda estrazione delle medicine dalla loro scatola. Da qualunque parte la si rigiri, per riuscire a raggiungere il blister con le pillole, bisogna, prima, estrarre il maledetto foglietto. Saggezza vorrebbe che lo si buttasse via immediatamente la prima volta, ma capita, invece che, in un momento di debolezza, ci si lasci andare a dispiegarlo e, giunti a quel punto, si tenti di leggerlo.
La parte iniziale, in caratteri microscopici e con linguaggio criptico, contiene la descrizione del farmaco. Non c'è mai scritto, intendiamoci, "Fa passare il mal di testa" o altre notizie utili che lo rendano chiaramente distinguibile, a colpo d'occhio, con le pillole che si occupano, invece, di combattere il mal di gola. Troppo facile, non meriterebbe l'ambito nome di bugiardino, sennò.
La seconda parte, di solito, indica in modo infido ed estremamente ambiguo la posologia, che, in italiano, vorrebbe dire quante-ne-devi-prendere e, magari, anche quando e quante volte al giorno. E' chiaro che un bestione di 120 kg va trattato con dosi più massicce di uno scricciolo di 42, ma la faccenda non viene mai posta in questi chiari termini ponderali. Se si è fortunati, l'indicazione si sbilancia a dire: una o più pillole ogni sei/dodici ore, durante i pasti. Come dire: "Vedi un un po' tu, gringo...". Naturalmente, non manca mai "... o secondo prescrizione medica" che suggerisce chiaramente che qualsiasi danno ti possa capitare, o è per colpa tua che non hai consultato il tuo dottore o sua che ti ha dato l'imbeccata sbagliata. Loro, i signori produttori di farmaci, te lo avevano detto a chiare lettere cosa dovevi fare. Resterebbe da soddisfare anche una curiosità riguardo al numero di pasti al giorno che un cristiano, seppure afflitto da mal di testa, dovrebbe consumare, ma lasciamo perdere, perché il bello viene nella terza parte del foglietto: quella che indica i malanni che il farmaco combatte e, soprattutto, le controindicazioni.
Se uno sa di essere un tipo nervoso, propenso alle arrabbiature e a pericolosi scatti d'ira, come Alessandro Magno, desista immediatamente dalla lettura di questa ultima parte, rinunciando a gustarsi un capolavoro di malafede, ambiguità e sadismo mascherato dentro un velo d'agnello.
I più dotati di spirito, i buontemponi ipervaccinati, invece proseguano perché ne vale la pena. Nelle poche righe finali del bugiardino si concentra, infatti, tutta la sapienza comunicativa di uno stuolo di azzeccagarbugli di alto rango, strapagati per rendere minacciosamente oscure le ineludibili reticenze e le inconfessabili verità, scoperte dai medici durante le compicenti sperimentazioni del farmaco.
In fondo FARMACON in greco non vuole dire altro che veleno, perché non alludere, allora, seppure enigmaticamente, alle potenzialità negative che sarebbe in grado di sviluppare? Certo non si troveranno mai affermazioni esplicite del tipo: "Può provocare fantastiche emorragie allo stomaco", ma più sottili accenni alla possibilità che "...in individui particolarmente sensibili possano verificarsi occasionalmente... " non stonano, anzi. Che speranze di guarigione potremmo mai riporre, del resto, in una medicina del tutto innocua o, addirittura, dal sapore gradevole? Fatalmente non si tratterebbe di nient'altro che di un banale placebo: mica panis, aqua fontis. E che ci casca? Siamo tutti furbissimi, noi.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 13 dicembre 2005 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
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Cancellare ogni traccia del proprio passaggio terreno era diventata la sua ossessione. Sopravvissuto ad un'infanzia di stenti, la fortuna, il coraggio e l'intraprendenza gli avevano assicurato una posizione invidiabile, non solo per l'agio economico ed il prestigio sociale di cui godeva, ma anche per l'aura eroica di cui era circondato. Ormai lontano dai riflettori della notorità quotidiana, era riuscito con tenacia e senza colpi di scena a circondarsi di una confortevole sfera d'ombra, ma non gli bastava. Avrebbe voluto sparire, cancellare, da vivo, ogni traccia del proprio passato nella memoria dei suoi contemporanei.
Da eroe popolare, amatissimo da un paio di generazioni, avrebbe, invece, voluto godere della stessa damnatio memoriae riservata ai grandi, caduti in disgarazia in età bizantina. Quando l'opera sembrava ormai riuscita, improvvisamente accadeva un evento, a lui del tutto estraneo, che lo riportava in piena luce sulla stampa per una sua impresa, ormai lontana nel tempo, di cui si rimpiangeva, con nostalgia, l'irripetibilità.
In un'età in cui i più annaspavano pateticamente per apparire ad ogni costo in televisione, seppure in modo effimero, ridicolo, degradante, a lui non riusciva di sparire. Reporter intraprendenti, lo avevano scovato, filmato e ripresentato ad un telegiornale mentre leggeva un libro sotto il portico dela sua casa in mezzo alla pampa argentina, a mille miglia dalla città più vicina. Perduta ogni speranza di svanire a Macondo, aveva tentato di mimetizzarsi nella grande promiscuità del Greenwich village, ma ben presto un reportages aveva documentato il suo nuovo rifugio, svelandone ogni particolare ed esaltando le sue anonime abitudini quotidiane.
Tornato in patria, nella valle boscosa della sua infanzia, lo avevano nominato senatore a vita e perseguitato con una decina di lauree honoris causa che lo avevano costretto ad apparire in cerimonie stucchevoli, in cui il suo passato gli veniva ripresentato dal rettore di turno come un fantasma immortale di cui gli era impossibile liberarsi.
Ormai privo di speranza, durante una notte insonne, gli capitò di rivedere Kaghemusha (Il sosia) e gli sovvenne di un suo doppio, emigrato in Argentina, che aveva conosciuto per caso e assunto nella sua finca. Era un brav'uomo, uno dei tanti sfortunati, originari della sua valle, che, da ragazzi, avevano cercato fortuna all'estero senza trovarla, prima che lui gli affidasse il governo della fattoria, alla sua partenza per New York.
Lo fece venire segretamente, lo vestì e istruì molto sommariamente e lo mandò a ricevere una laurea nella capitale.
I giornali, dando il giusto rilievo al'evento, riferirono che la recente malattia aveva segnato fisicamente il senatore, ma senza appannarne quello spirito che lo aveva reso un mito vivente: un unicum irripetibile a cui l'intero paese guardava come fulgido esempio di virtù civiche, modestia esemplare e cultura insondabile.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 09 dicembre 2005 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)