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Una buona notizia per i patiti della cioccolata: oltre alle squisitezze ben note, contiene un ingrediente che si è rivelato un efficace calmante per la tosse, la teobromina. Secondo una recente ricerca pubblicata sul FASEB Journal, un gruppo di studiosi ha scoperto che la teobromina, notoriamente presente nel cacao, sarebbe il 30% più efficace della codeina, come sedativo della tosse. Non solo, ma a differenza di quest'ultima, non provocherebbe effetti indesiderati, cosicché si potranno preparare sciroppi con dosaggi più alti e, quindi, più efficaci. Insomma, quando disporremo di sciroppi alla teobromina, dormiremmo come angioletti anche quando la tosse perversa congiurerebbe per tenerci svegli, ed anche quelli che guidano o svolgono lavori che richiedono la massima prontezza potranno combattere la tosse, senza preoccuparsi della sonnolenza indotta dalla codeina. Avevano ragione i Maya a considerare il cacao un cibo prezioso da regalare in occasioni speciali, da consumare durante riti religiosi e, perfino, da usare come merce di scambio per eccellenza, al posto del denaro. Quattro semi per una zucca; dieci per un coniglio; cento per uno schiavo.
Di recente sono state scoperte anche le virtù della cioccolata amara che fa bene al cuore perché aumenta il livello di sostanze antiossidanti. Insomma, cioccoladores de todo el mundo, dateci dentro allegramente con il vostro cibo preferito che chissà quali altri pregi nasconde.
A sinistra un frutto di cacao spaccato che mostra i semi al suo interno. A destra una tabella di valori che usa il seme di cacao come unità di misura.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) lun 29 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
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Nella stagione di arance e clementine quando in giardino il nespolo è fiorito è nata una bella bambina piccolina così, ma già Margherita. Mentre la nebbia svaniva nel sole sono arrivate da terre lontane tutte e dodici le fate buone trasportate da un vento burlone che al loro passare suonava campane cavava cappelli e arruffava mantelli. Per augurarle buona fortuna, le soffiarono un bacio sulla manina troppo delicata per essere baciata. "Bella e buona sarai, brava e molto fortunata questo vogliamo che sia il tuo destino. Ricordalo bene, non lo scordare siamo noi le dodici fate che filano la sorte di tutta la vita, fino alla morte." Nel salutarla con inchini giocosi svanirono nell'aria ad una ad una lasciandosi dietro soltanto i sorrisi.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) dom 28 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
L'autentico grimpeur non si smentisce mai, neppure quando parcheggia la sua bici
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) dom 21 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Le immagini, drasticamente compresse e rimpicciolite, sono la rielaborazione con Photoshop di una mia foto a colori di via dei Chiari, a Bologna
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 19 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Della moltiplicazione dei pani e dei pesci era stato informato da bambino, anche se la vicenda gli aveva lasciato qualche dubbio, all'epoca, ma quando vide che la sua vecchia teiera, sulla quale aveva fermato lungamente lo sguardo soprappensiero, si era gonfiata, credette di avere le traveggole e cercò di convincersi che era sempre stata di quella dimensione. Ubriaco non era, dopo due sole tazze di te al latte e qualche frollino rigato. Neanche i più fantastici miracolatori del West si erano mai vantati di riuscire a trasformare il te in whisky, nonostante fossero identici da vedere in un bicchiere. Per quanto ne sapeva, al massimo si poteva far pagare per whisky il te bevuto dalle entreneuse nei night di terz'ordine, se il cliente che sganciava i dollari era un autentico credulone, possibilmente ubriaco di whisky vero. Un fatto era certo: era sobrio come un pozzo. Così, a scanso di equivoci, lasciò la teiera sul tavolo, si accese la pipa e se ne andò a fare una passeggiata con il cane, contento come una pasqua del giretto fuori ordinanza, a metà del pomeriggio. Qundo tornò il sole era già tramontato e la casa era rimasta sola e al buio. Non gli piaceva trovarla così addormentata al suo rientro; preferiva trovare una luce accesa che gli desse il benvenuto. Cambiò l'acqua nella ciotola del cane che era assetato, gli diede qualche bocconcino e una strapazzata affettuosa e decise che era ora di cena anche per lui. Non aveva bisogno di guardare la pendola per saperlo. Viveva da solo con il cane, persona gentile e dalle abitudini informali, e i suoi orari erano molto elastici: mangiava quando ne aveva voglia, ma apparecchiava per bene come se fosse a palazzo Braschi, diceva lui, anche se da qualche anno, vestiva in modo molto casual, qualcuno avrebbe potuto dire come un barbone. Prima di stendere la tovaglia fu necessario sgomberare la tavola. Ripose il vaso ermetico dei biscotti, il bicchiere di cristallo tagliato con la marmellata, la zuccheriera d'argento, afferrò il bricco del latte e la tazza sporca, uno per mano, li lavò, li asciugò e li ripose nella credenza, come sempre. Aveva la fisima dell'ordine, che nella sua visione del mondo, richiedeva che i muri fossero liberi da quadri e le superfici orizzontali dei mobili completamente sgombre, in particolare il ripiano scanalato del lavello doveva sempre essere libero e asciutto, al termine delle incombenze di rigovernatura. Quando tornò in camera da pranzo, la vide troneggiare sola in mezzo al tavolo. Non era mai stata così... imponente. Non c'è dubbio: era cresciuta. Non si era deformata, era semplicemente più grossa, quasi maestosa: una signora teiera. Per svuotarla e riporla dovette usare entrambe le mani: era anche pesante. Stranamente questo fatto lo riconfortò:aveva mantenuto la giusta proporzione. Nei giorni successivi non accadde nulla di strano, semplicemente decise che non aveva più voglia del te pomeridiano. La domenica successiva andò in piazza con il cane. Non era il tipo che si sarebbe vestito per la festa, anche se lo avesse saputo, ma si accorse che c'era un'animazione insolita: bandiere, ragazzi, il suono di una banda ancora lontana, invece dei soliti vecchi che la popolavano sempre, se il tempo non era troppo scoraggiante. Era festa, insomma, non la solita domenica feriale. Ci mise poco a rendersi conto che doveva essere il primo Maggio. Era arrivato, ancora una volta, così all'improvviso. Si guardò in giro: sembravano tutti forestieri. A parte il suo cagnolino, non c'era neanche un cristiano conosciuto. Guardò in alto, sopra le rondini e si mise a fissare la cupola che spuntava dietro i palazzi. Mentre la osservava, dapprima distrattamente poi con sempre maggior concentrazione, gli apparve più monumentale e più splendente del solito, una meraviglia degna di Brunelleschi. Anche i vetri della lucerna sembravano appena lustrati, luccicavano al sole, ci si sarebbe potuti specchiare. Guardò meglio e vi scorse la sua faccia: la solita faccia di tutti i giorni, ma la gente, invece, sembrava non accorgersi di tanto splendore. Guardavano a terra, apparivano lontani, piccoli e insignificanti. Restavano immobili sul pavimento o si muovevano a scatti, senza senso, come scarafaggi notturni, spaventati dall'accensione improvvisa di una luce. Per non calpestarli, rimase immobile, mentre la cupola continuava a crescere sotto il suo sguardo. Ma le proporzioni restavano corrette e altrettanto conforme sarebbe stato il peso, se avesse potuto misurarlo. Ne era certo.
Della moltiplicazione dei pani e dei pesci era stato informato da bambino, anche se la vicenda gli aveva lasciato qualche dubbio, all'epoca, ma quando vide che la sua vecchia teiera, sulla quale aveva fermato lungamente lo sguardo soprappensiero, si era gonfiata, credette di avere le traveggole e cercò di convincersi che era sempre stata di quella dimensione. Ubriaco non era, dopo due sole tazze di te al latte e qualche frollino rigato. Neanche i più fantastici miracolatori del West si erano mai vantati di riuscire a trasformare il te in whisky, nonostante fossero identici da vedere in un bicchiere. Per quanto ne sapeva, al massimo si poteva far pagare per whisky il te bevuto dalle entreneuse nei night di terz'ordine, se il cliente che sganciava i dollari era un autentico credulone, possibilmente ubriaco di whisky vero. Un fatto era certo: era sobrio come un pozzo.
Così, a scanso di equivoci, lasciò la teiera sul tavolo, si accese la pipa e se ne andò a fare una passeggiata con il cane, contento come una pasqua del giretto fuori ordinanza, a metà del pomeriggio. Qundo tornò il sole era già tramontato e la casa era rimasta sola e al buio. Non gli piaceva trovarla così addormentata al suo rientro; preferiva trovare una luce accesa che gli desse il benvenuto. Cambiò l'acqua nella ciotola del cane che era assetato, gli diede qualche bocconcino e una strapazzata affettuosa e decise che era ora di cena anche per lui. Non aveva bisogno di guardare la pendola per saperlo. Viveva da solo con il cane, persona gentile e dalle abitudini informali, e i suoi orari erano molto elastici: mangiava quando ne aveva voglia, ma apparecchiava per bene come se fosse a palazzo Braschi, diceva lui, anche se da qualche anno, vestiva in modo molto casual, qualcuno avrebbe potuto dire come un barbone.
Prima di stendere la tovaglia fu necessario sgomberare la tavola. Ripose il vaso ermetico dei biscotti, il bicchiere di cristallo tagliato con la marmellata, la zuccheriera d'argento, afferrò il bricco del latte e la tazza sporca, uno per mano, li lavò, li asciugò e li ripose nella credenza, come sempre. Aveva la fisima dell'ordine, che nella sua visione del mondo, richiedeva che i muri fossero liberi da quadri e le superfici orizzontali dei mobili completamente sgombre, in particolare il ripiano scanalato del lavello doveva sempre essere libero e asciutto, al termine delle incombenze di rigovernatura.
Quando tornò in camera da pranzo, la vide troneggiare sola in mezzo al tavolo. Non era mai stata così... imponente. Non c'è dubbio: era cresciuta. Non si era deformata, era semplicemente più grossa, quasi maestosa: una signora teiera. Per svuotarla e riporla dovette usare entrambe le mani: era anche pesante. Stranamente questo fatto lo riconfortò:aveva mantenuto la giusta proporzione. Nei giorni successivi non accadde nulla di strano, semplicemente decise che non aveva più voglia del te pomeridiano. La domenica successiva andò in piazza con il cane. Non era il tipo che si sarebbe vestito per la festa, anche se lo avesse saputo, ma si accorse che c'era un'animazione insolita: bandiere, ragazzi, il suono di una banda ancora lontana, invece dei soliti vecchi che la popolavano sempre, se il tempo non era troppo scoraggiante. Era festa, insomma, non la solita domenica feriale. Ci mise poco a rendersi conto che doveva essere il primo Maggio. Era arrivato, ancora una volta, così all'improvviso. Si guardò in giro: sembravano tutti forestieri. A parte il suo cagnolino, non c'era neanche un cristiano conosciuto. Guardò in alto, sopra le rondini e si mise a fissare la cupola che spuntava dietro i palazzi. Mentre la osservava, dapprima distrattamente poi con sempre maggior concentrazione, gli apparve più monumentale e più splendente del solito, una meraviglia degna di Brunelleschi. Anche i vetri della lucerna sembravano appena lustrati, luccicavano al sole, ci si sarebbe potuti specchiare. Guardò meglio e vi scorse la sua faccia: la solita faccia di tutti i giorni, ma la gente, invece, sembrava non accorgersi di tanto splendore. Guardavano a terra, apparivano lontani, piccoli e insignificanti. Restavano immobili sul pavimento o si muovevano a scatti, senza senso, come scarafaggi notturni, spaventati dall'accensione improvvisa di una luce. Per non calpestarli, rimase immobile, mentre la cupola continuava a crescere sotto il suo sguardo. Ma le proporzioni restavano corrette e altrettanto conforme sarebbe stato il peso, se avesse potuto misurarlo. Ne era certo.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 18 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mer 17 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Chi pretende la simmetria e l'unformità farà meglio a guardare per terra, se gli capiterà di passare in via Senzanome, una delle strette strade del centro storico di Bologna. Qui l'individualismo più spensierato e l'esigenze abitatative personali hanno trovato il più ampio sfogo per consolidarsi, immutate nei secoli, nell'anarchia più disinvolta. Se non passeranno le ruspe demolitrici di un novello Napoleone che sfondi, smantelli e cancelli secoli di sedimentazioni urbanistiche, aprendo larghe strade diritte per il passaggio di truppe e cannoni, c'è da pensare che porte e finestre di tutte le misure e di tutti i colori continueranno a coesistere allegramente l'una accanto all'altra, come fanno da sempre.
Anche il nome della strada che ospita tanta stravaganza e spontaneità architettonica è adeguato: via Senzanome, non è certo banale né comune. E' abbastanza noto ai bolognesi che a determinare il nome fu una frettolosa riqualificazione toponomastica, in nome della decenza più bacchettona e priva d'inventiva, da parte di un funzionario comunale in occasione della visita pastorale dell'arcivesco alla contrada. I popolani che l'abitavano l'avevano sempre chiamata via Sfregatette, per sottolinearne la larghezza angusta che costringeva i passanti a sfiorarsi, non senza qualche gustoso vantaggio. Per qualche imperscrutabile ragione, passata la festa, nessuno ha poi provveduto ad attribuirle un nome meno stravagante e provvisorio o a ripristinare il vecchio toponimo popolare, che invece, generazione dopo generazione, ha finito col soccombere alla indiscutibile ufficialità del nome inciso sulla tabella, per sopravvivere solo nelle leggende urbane. Dell'altrettanto stravagante toponimo "Centotrecento" attribuito ad un'altra strada popolare di Bologna, parleremo in altra occasione.
"Ma che burloni!" direbbe Gilberto Govi.
Clicca sulle due immagini piccole di via Senzanome per ingrandirle
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) lun 15 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 11 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Carrozze e carri sono diventati ormai cimeli in un'epoca in cui limousine, berline e autocarri s'incaricano di trasportare uomini, animali e merci, spinti da poderosi motori da decine o centinaia di cavalli-vapore. La mancanza di uomini-vapore ha invece conferito maggiore longevità a carretti e carriole che, nel loro modesto ambito, continuano a resistere. In oriente, persiste ancora il risciò che è comparso, recentemente e fuori da ogni tradizione, anche a Torino ed in qualche altra città italiana, in versioni moderne con cambio e pedalata potenziata elettricamente.
La carriola è di gran lunga il mezzo più originale con la sua spiccata assimmetria, conferitale dalla presenza di una sola piccola ruota. Meno originale, ma più facile da manovrare e più capace è il carretto a mano, fonito di due ruote a raggi, di solito della dimensione e foggia di quelle da bicicletta. A differenza della carriola, ancora largamente presente nei cantieri, è diventato una mezza rarità e chi lo possiede è spesso infastidito dalla richiesta di prestito da parte di vicini che, all'occasione, ne riscoprono la rustica utilità per brevi trasporti di masserizie e di oggetti anche ingombranti, ma poco pesanti. Chiunque è in grado di manovrarlo anche in logge, portici e stretti passaggi, senza sottoporsi ad un grande sforzo muscolare e la sua manutenzione ed i costi di esercizio sono veramente irrilevanti. Questi sono i pro, il solo contro è il suo ingombro: non si ripiega e non si smonta, neppure laboriosamente. Sia durante lo svolgimento delle sue preziose funzioni, sia durante i presumibilmente lunghi periodi di sosta, occupa cinque o sei metri quadrati: un rimessaggio oneroso in una città affollata di uomini e soffocata dalle auto. Così finisce con l'essere abbandonato alla pioggia finché la ruggine non se lo porterà via, lentamente, ma inesorabilmente. Chi non ha mai posseduto un "carriolino", come si dice dalle mie parti, non sa che cosa si è perso.
Nell'immagine un carriolino abbandonato sotto un portichetto di via Mirasole, a Bologna
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) lun 08 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Nell'immagine, una festosa celebrazione del Primo Maggio in piazza Maggiore a Bologna
Non sapevo che la carambola ( Averrhoa carambola ) fosse anche un frutto subtropicale noto nei paesi anglosassoni come starfruit per la forma di stella della sua sezione che la rende particolarmente adatta per guarnizioni spettacolari su esotiche crostate di frutta. E' un albero di otto~dieci metri a lento accrescimento, con una chioma fitta e ramificata che produce copiosi frutti gialli; soffre il freddo e i venti molto caldi e secchi. Insomma è meglio non piantarla nei nostri giardini che soffrono temperature invernali abbondantemente sotto lo zero, ma cresce bene a Ceylon, nelle isole Molucche, in Malesia e in zone climatiche simili. Se appena appena resistesse, sono certo che ne avrei ammirato larghi appezzamenti durante le mie scorribande nelle colline faentine che hanno già conosciuto l' apoteosi del kiwi, originario della Cina (nota con il nome yang-tao) e dei cachi, anch'essi originari della Cina del nord e del Giappone.
Quando eravamo ragazzi, il termine carambola indicava un popolare gioco al biliardo a stecche, da giocare con tre palle, se ricordo bene. I giornali lo usavano anche in senso metaforico, per indicare un movimento convulso e catastrofico di auto coinvolte in un incidente stradale: "La fitta nebbia ha provocato una carambola di auto che hanno ostruito per ore la corsia Nord...", ma il frutto esotico non era ancora sbarcato neppure nei più sofisticati banchi di frutta. Non l'aveva neppure "Cartier", così nominato per i prezzi popolari della sua frutta e verdura.
Ricordo invece, quando all'uscita da scuola, stanchi e scorbacchiati per una versione impossibile di greco, ci ritrovavamo davanti "Beppe", un compagno di lungo corso che è stato a scuola almeno un anno con tutti liceali bolognesi di una generazione, prima di comparire inopinatamente con il cappello da "fagiolo", senza passare prosaicamente per la maturità e l'altrettanto inevitabile anno da matricola.
Era un mago della carambola e della goriziana, alle quali dedicava devotamente mattine intere, senza perdere tempo a scuola. Il suo spasso maggiore, tuttavia, consisteva nell'aspettarci, puntuale, all'uscita delle lezioni per squadernarci sul muso un ventaglio di banconote da mille che aveva appena vinto all'Accademia del biliardo. Al gesto di sberleffo, per lo più aggiungeva un signorile: "Cretini, guarda qui cosa ho vinto stamattina!"
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 04 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Oggi solo due nature morte di Fernando Botero: un'austera colazione da consumare appena svegli, durante la lettura del giornale del mattino, secondo il costume latino e una sostanziosa merenda, per combattere la debolezza a metà del pomeriggio. Questi dipinti sono sicuramente meno caratteristici di quelli con figure umane, ma offrono un panorama interessante sull'alimentazione che bisogna seguire per diventare belli cicciotti e rubicondi e raggiungere, così, la forma che rende uomini e donne degni di essere ritratti da parte di Botero. Se un caffè fumante "all'americana", da bere a litri, una tazzona dopo l'altra, e un'arancia succosa possono bastare al risveglio, per la merenda, sullo stesso tavolino semiapparecchiato, bisognerà mettere, oltre all'immancabile frutta fresca (limone, arancia, mapo, ciliege e cocomero), una ciotola di pere sciroppate e, per finire in bellezza, savoiardi glassati, una mousse turgidissima e una torta di cioccolata riccamente glassata. Resta il mistero della zuppiera. Sul suo contenuto non trapela alcun indizio, ma la sua forma pingue fino a scoppiare ci rassicura: non potrà certo contenere un anemico, insensato brodino. E la chitarra? Ci devo pensare.
Oggi solo due nature morte di Fernando Botero: un'austera colazione da consumare appena svegli, durante la lettura del giornale del mattino, secondo il costume latino e una sostanziosa merenda, per combattere la debolezza a metà del pomeriggio. Questi dipinti sono sicuramente meno caratteristici di quelli con figure umane, ma offrono un panorama interessante sull'alimentazione che bisogna seguire per diventare belli cicciotti e rubicondi e raggiungere, così, la forma che rende uomini e donne degni di essere ritratti da parte di Botero.
Se un caffè fumante "all'americana", da bere a litri, una tazzona dopo l'altra, e un'arancia succosa possono bastare al risveglio, per la merenda, sullo stesso tavolino semiapparecchiato, bisognerà mettere, oltre all'immancabile frutta fresca (limone, arancia, mapo, ciliege e cocomero), una ciotola di pere sciroppate e, per finire in bellezza, savoiardi glassati, una mousse turgidissima e una torta di cioccolata riccamente glassata. Resta il mistero della zuppiera. Sul suo contenuto non trapela alcun indizio, ma la sua forma pingue fino a scoppiare ci rassicura: non potrà certo contenere un anemico, insensato brodino.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mer 03 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
L'immagine è di Fernando Botero, com'è facile riconoscere
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 02 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
"Dopo il matrimonio di V., la vendiamo. E' inutile lasciarla intristire al sole e alla pioggia, coperta di foglie e aghi di pino". Questo era stato il fiero proposito, ma in realtà è passato un altro anno e mezzo, prima che l'evento malinconico avvenisse. Venerdì scorso, però, abbiamo venduto la Jaguar con lo spirito di chi compie un dovere sgradito che non può essere ultreriormente rimandato. E' dispiaciuto a tutti, perfino ad AM che, per misteriose ragioni, non hai mai voluto guidarla, benché fosse un autentico spasso. Era bellissima, confortevole, silenziosa, veramente principesca, ma ormai la usavamo pochissimo. Da un paio d'anni, io ho smesso di girare per l'Italia come una trottola e, qui in città vado esclusivamente a piedi o in moto o in bici. Per i nostri giri&giretti, in coppia o in formazione completa, usiamo la monovolume diesel che funziona benissimo e non consuma un accidente, quindi... addio bella principessa, sei rimasta nel nostro cuore.
In alto," Las visiones de Quijote" di Octavio Ocampo In basso: "Il pensatore di Escher osservato dal terapista di Magritte" di Jos de Mey
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) lun 01 novembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)