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Per la prima volta, con la mostra "I colori del bianco. Mille anni di colore nella scultura antica", ospitata nella Sala Polifunzionale dei Musei Vaticani sino al 31 gennaio 2005 si è tentata una ricostruzione tridimensionale in scala 1/1 di celeberrime statue antiche di cui, da tempo, si sapeva che erano colorate, a differenza di come appaiono a noi oggi, visitando i musei che le accolgono. Il risultato della ricostruzione è impressionante e supera di gran lunga l'immaginazione. Altroché pallore marmoreo, quello che ci si presenta sono degli elegantissimi pupi siciliani, pitturati senza risparmio per colpire la fantasia di un pubblico avido di sensazioni forti. La parentela con la celeberrima arte policroma egizia o con quella cretese risulta evidente più che mai: si tratta sempre di arte mediterranea, insomma, quella di popoli che vivevano sulle rive dello stesso bacino chiuso in cui la circolazione d'idee era intensissima e ci si "copiava" vicendevolmente senza alcun pudore.
Il risultato può non piacere perché siamo abituati a pensare all'arte classica come pregevolmente divergente da quella barbarica, puerilmente colorata, ma dovremo adattarci a cancellare i solchi mentali derivati dai nostri studi liceali, improntati ad una visione falsa e piuttosto spocchiosa della classicità che squadre di fisici e chimici hanno fatto a pezzi definitivamente. La variopinta schiera di bovari sikh, provenienti dal Punjab, che si sono installati a Novellara (MO) e dintorni, e la domenica percorrono strade e piazze con i loro sgargianti costumi, dovrebbero aiutarci ad acquisire una maggiore apertura nei confronti di un mondo in cui il bianco e nero è un'elegante astrazione di una realtà inventata, con buona pace di J.J.Winkelmann (1717-1768) e delle raffinate professorese di storia dell'arte che ci hanno allevato ad una classicità mai esistita.
Mi resta nel gozzo una domanda:"... e se Canova avesse visitato la mostra...?"
Per chi volesse saperne di più, Paolo Liverani, il curatore della mostra, ha scritto una interessante articolo apparso su "Il sole 24 ore" .
Ecco alcuni esempi di statue come apparivano ai loro tempi. Cliccando sulla piccola figura ne otterrai un ingrandimento. Si tratta di un leone del VI secolo a.C.; della “Kore del peplo” - Atene, Acropoli 679 a.C. e dell'Augusto di Prima Porta - Roma 12 a.C. circa.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mer 15 dicembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
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Quali sono gli elementi che ci aiutano ad associare un nome ad un volto? La faccenda è tutt'altro che chiara e tantomeno scontata, ma qualche passo avanti pare sia stato compiuto dalla Dr Jenny Gimpel dell'University College of London che sta conducendo una ricerca sulle aree del cervello che appaionio coivolte nel complicato processo, che fallisce completamente in presenza di alcune malattie o lesioni che impediscono a chi ne soffre di riconoscere gli amici o, addirittura, i propri figli. Servendosi della scansione magnetica durante un esperimento di riconoscimento a cui si erano sottoposti volontari sani, la ricerca ha dimostrato che il processo si svolge in tre stadi che coinvolgono tre distinte aree del cervello: la prima analizza le caratteristiche fisiche di un volto, la seconda decide se si tratta di un volto noto oppure no, la terza procede alla ricerca delle informazioni associate a quel volto, attribuendole, ad esempio, il nome. L'esperimento è stato condotto anche servendosi d'immagini di Margaret Tatcher trasformate gradualmente, per mezzo di un programma di morphing, in quelle di Marilin Monroe. In modo inatteso, il riconoscimento del volto di Marilyn (lo stadio finale della trasformazione) è avvenuto più rapidamente di quanto i cambiamenti delle specifiche caratteristiche fisiche lasciassero pensare. Il processo a tre stadi (lascia che ti guardi; ti conosco o no; chi sei, come ti chiami ecc.) potrebbe spiegare perché la gente come me, che per mestiere ha incontrato migliaia di facce, tenendo corsi e conferenze in giro per l'Italia, riconosce un volto come vagamente noto, ma non è minimamente in grado di associarlo alle circostanze dell'incontro o, ancor meno, ad un nome che non ha mai saputo. La ricerca nulla aggiunge e nulla toglie alla inveterata categorizzazione lombrosiana-da-sbarco che accomuna tutti noi mortali nel riconoscimento inoppugnabile delle facce di bronzo, di quelle da assassino e nella vasta e variopinta categoria delle facce da culo.
Quali sono gli elementi che ci aiutano ad associare un nome ad un volto? La faccenda è tutt'altro che chiara e tantomeno scontata, ma qualche passo avanti pare sia stato compiuto dalla Dr Jenny Gimpel dell'University College of London che sta conducendo una ricerca sulle aree del cervello che appaionio coivolte nel complicato processo, che fallisce completamente in presenza di alcune malattie o lesioni che impediscono a chi ne soffre di riconoscere gli amici o, addirittura, i propri figli.
Servendosi della scansione magnetica durante un esperimento di riconoscimento a cui si erano sottoposti volontari sani, la ricerca ha dimostrato che il processo si svolge in tre stadi che coinvolgono tre distinte aree del cervello: la prima analizza le caratteristiche fisiche di un volto, la seconda decide se si tratta di un volto noto oppure no, la terza procede alla ricerca delle informazioni associate a quel volto, attribuendole, ad esempio, il nome.
L'esperimento è stato condotto anche servendosi d'immagini di Margaret Tatcher trasformate gradualmente, per mezzo di un programma di morphing, in quelle di Marilin Monroe. In modo inatteso, il riconoscimento del volto di Marilyn (lo stadio finale della trasformazione) è avvenuto più rapidamente di quanto i cambiamenti delle specifiche caratteristiche fisiche lasciassero pensare.
Il processo a tre stadi (lascia che ti guardi; ti conosco o no; chi sei, come ti chiami ecc.) potrebbe spiegare perché la gente come me, che per mestiere ha incontrato migliaia di facce, tenendo corsi e conferenze in giro per l'Italia, riconosce un volto come vagamente noto, ma non è minimamente in grado di associarlo alle circostanze dell'incontro o, ancor meno, ad un nome che non ha mai saputo.
La ricerca nulla aggiunge e nulla toglie alla inveterata categorizzazione lombrosiana-da-sbarco che accomuna tutti noi mortali nel riconoscimento inoppugnabile delle facce di bronzo, di quelle da assassino e nella vasta e variopinta categoria delle facce da culo.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 14 dicembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 10 dicembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Aveva cominciato da bambino, incantandosi a contare gli anelli delle ceppaie rimaste nel vecchio bosco vicino a casa, dopo le periodiche operazioni di sfoltimento. Con l'aiuto del nonno, aveva imparato a distinguere le vicende della vita dei grossi tronchi ormai giunti alla loro fine. Non solo ne scrogeva sempre più chiaramente la sorte collettiva: gli anni di siccità e quelli grassi, ma anche le malattie che avevano colpito alcuni di loro nel corso della loro parabola vegetativa, lasciando indenni altri confratelli poco distanti. Questo interesse affettuoso per i suoi alberi si era trasformato nella persuasione che ciascuno portasse chiaramente scritto non solo il diario della propria vita, ma una mappa del destino ben chiara e leggibile, stampata nelle venature, che li distinguevano individualmente l'uno dall'altro. Quasi inevitabile fu lo sviluppo di questa sua attitudine alla interpretazione delle linee del destino nascoste nelle venature dei tavoli. Il suo scrittoio, un vecchio tavolone massiccio di famiglia, passato di generazione in generazione, rivelava un passato ricco di vicende intense e tumultuose, accumulate nel corso di molti decenni, come tavolone di lavoro della piccola pellicceria di famiglia, come tavolaccioo da taverna durante la guerra, quando l'intera casa era stata requisita dai soldati occupanti che avevano bruciato nel camino mezza casa, come tavolo di pranzo nella grande cucina a pianterreno, durante i miseri anni del dopoguerra e, infine, come solido scrittoio di suo padre e poi suo. Nella sue vene robuste scorgeva ben chiaro, ad di sotto degli sfregi, dei tagli e delle bruciature una poderosa caparbietà di sopravvivenza, un destino da araba fenice, che pareva quasi trasmettersi a chi lo usava. Pensava che se suo padre non si fosse affrettato a passarglielo, non appena la sua età richiedeva un tavolo di studio, sarebbe stato ancora vivo. Con il passare degli anni, aveva imparato a leggere anche la venatura delle pipe. Di alcune, improvvidamente ricavate da ciocchi disgraziati, aveva facilmente previsto la sgradevole natura o la precoce vocazione al suicidio: si nascondevano in tasche dismesse fino alla sparizione finale o si buttvano dal terrazzo su uno dei pochi sassi ornamentali del giardino, spezzandosi il collo irrimediabilmente o, addirittura, si catapultavano direttamente dalla tasca in un tombino fognario, azzeccando un'improbabile fessura, apparentemente incapace d'inghiottirle. Nella meravigliosa vena ascendente di una pipa fiammata, conica, di media capienza aveva, invece, scorto un destino felice, una predisposizione contagiosa alla felicità, forse all'immortalità. Era ben raro che non fosse presente fra le quattro o cinque pipe che solitamente popolavano le sue tasche e non se ne sarebbe separato per nessuna ragione. Quando la sua mano, pescando distrattamente in una delle tasche, la estraeva per caricarla e fumarla, era certo che si sarebbe goduto una bella pipata, senza brutti pensieri. Da vecchio aveva quasi dovuto smettere, per le pressioni di medici e famigliari sobbillati da paranoiche campagne di dissuasione al fumo, ma ogni tanto una buona fumata nella pipa del destino continuava a concedersela, incurante di rimbrotti e lamentele, finché la rottura di un femore non lo costrinse in ospedale. Secondo il chirurgo, doveva trattarsi di una degenza breve e senza problemi e tale sarebbe stata se un'inflessibile caposala, animata dalle peggiori intenzioni di far bene, non avesse confiscato la sua pipa dal cassetto del tavolino, dove il nipote premuroso che lo assisteva l'aveva deposta, ben consapevole dell'importanza vitale nascosta nelle sue venature. Qunando, al risveglio precoce dall'anestesia, nel tentativo di ricostruire la mappa della nuova situazione e trovare un segno della sorte che lo attendeva, volse il suo sguardo dalle pareti bianche ed anonime della stanza al tavolino, per leggerne le venature, dovette constatare che non ne aveva. Non era altro che una triste parodia di tavolo, ricoperto da un laminato mortalmente amorfo. Con impazienza, si girò allora per cercare la sua pipa nel cassetto, staccando tubi e fili che lo impastoiavano, per trovare conforto nella sua venatura rassicurante. Quando lo vide asetticamente vuoto, non ebbe bisogno di altri segni; si adagiò sulla schiena e chiuse gli occhi malinconicamente, consapevole che di lui neppure una ceppaia sarebbe rimasta, per raccontare la sua storia ad un bambino curioso.
Aveva cominciato da bambino, incantandosi a contare gli anelli delle ceppaie rimaste nel vecchio bosco vicino a casa, dopo le periodiche operazioni di sfoltimento. Con l'aiuto del nonno, aveva imparato a distinguere le vicende della vita dei grossi tronchi ormai giunti alla loro fine. Non solo ne scrogeva sempre più chiaramente la sorte collettiva: gli anni di siccità e quelli grassi, ma anche le malattie che avevano colpito alcuni di loro nel corso della loro parabola vegetativa, lasciando indenni altri confratelli poco distanti. Questo interesse affettuoso per i suoi alberi si era trasformato nella persuasione che ciascuno portasse chiaramente scritto non solo il diario della propria vita, ma una mappa del destino ben chiara e leggibile, stampata nelle venature, che li distinguevano individualmente l'uno dall'altro. Quasi inevitabile fu lo sviluppo di questa sua attitudine alla interpretazione delle linee del destino nascoste nelle venature dei tavoli. Il suo scrittoio, un vecchio tavolone massiccio di famiglia, passato di generazione in generazione, rivelava un passato ricco di vicende intense e tumultuose, accumulate nel corso di molti decenni, come tavolone di lavoro della piccola pellicceria di famiglia, come tavolaccioo da taverna durante la guerra, quando l'intera casa era stata requisita dai soldati occupanti che avevano bruciato nel camino mezza casa, come tavolo di pranzo nella grande cucina a pianterreno, durante i miseri anni del dopoguerra e, infine, come solido scrittoio di suo padre e poi suo. Nella sue vene robuste scorgeva ben chiaro, ad di sotto degli sfregi, dei tagli e delle bruciature una poderosa caparbietà di sopravvivenza, un destino da araba fenice, che pareva quasi trasmettersi a chi lo usava. Pensava che se suo padre non si fosse affrettato a passarglielo, non appena la sua età richiedeva un tavolo di studio, sarebbe stato ancora vivo.
Con il passare degli anni, aveva imparato a leggere anche la venatura delle pipe. Di alcune, improvvidamente ricavate da ciocchi disgraziati, aveva facilmente previsto la sgradevole natura o la precoce vocazione al suicidio: si nascondevano in tasche dismesse fino alla sparizione finale o si buttvano dal terrazzo su uno dei pochi sassi ornamentali del giardino, spezzandosi il collo irrimediabilmente o, addirittura, si catapultavano direttamente dalla tasca in un tombino fognario, azzeccando un'improbabile fessura, apparentemente incapace d'inghiottirle.
Nella meravigliosa vena ascendente di una pipa fiammata, conica, di media capienza aveva, invece, scorto un destino felice, una predisposizione contagiosa alla felicità, forse all'immortalità. Era ben raro che non fosse presente fra le quattro o cinque pipe che solitamente popolavano le sue tasche e non se ne sarebbe separato per nessuna ragione. Quando la sua mano, pescando distrattamente in una delle tasche, la estraeva per caricarla e fumarla, era certo che si sarebbe goduto una bella pipata, senza brutti pensieri. Da vecchio aveva quasi dovuto smettere, per le pressioni di medici e famigliari sobbillati da paranoiche campagne di dissuasione al fumo, ma ogni tanto una buona fumata nella pipa del destino continuava a concedersela, incurante di rimbrotti e lamentele, finché la rottura di un femore non lo costrinse in ospedale. Secondo il chirurgo, doveva trattarsi di una degenza breve e senza problemi e tale sarebbe stata se un'inflessibile caposala, animata dalle peggiori intenzioni di far bene, non avesse confiscato la sua pipa dal cassetto del tavolino, dove il nipote premuroso che lo assisteva l'aveva deposta, ben consapevole dell'importanza vitale nascosta nelle sue venature. Qunando, al risveglio precoce dall'anestesia, nel tentativo di ricostruire la mappa della nuova situazione e trovare un segno della sorte che lo attendeva, volse il suo sguardo dalle pareti bianche ed anonime della stanza al tavolino, per leggerne le venature, dovette constatare che non ne aveva. Non era altro che una triste parodia di tavolo, ricoperto da un laminato mortalmente amorfo. Con impazienza, si girò allora per cercare la sua pipa nel cassetto, staccando tubi e fili che lo impastoiavano, per trovare conforto nella sua venatura rassicurante. Quando lo vide asetticamente vuoto, non ebbe bisogno di altri segni; si adagiò sulla schiena e chiuse gli occhi malinconicamente, consapevole che di lui neppure una ceppaia sarebbe rimasta, per raccontare la sua storia ad un bambino curioso.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) lun 06 dicembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 03 dicembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Da quando, ancora con le braghe corte, aveva saputo che l'orologio di piazza sulla robusta torre centrale del castello era opera di un suo bisnonno, il più celebre orologiaio del paese, nonchè appassionato cacciatore, abituato a chiudere bottega quando arrivava l'ora di staccare la doppietta dal chiodo, aveva preso l'abitudine di tenerlo d'occhio. Giusto un'occhiatina per accertarsi che funzionasse bene, senza la pretesa di una precisione cronometrica. Sapeva bene che della vecchia macchina del tempo a ingranaggi, azionata da pesi madornali, che scendevano verticalmente al centro della torre, non era rimasto più nulla, tuttavia le grosse lancette di ferro battuto non erano mai state sostituite: erano sempre quelle del nonno, anzi, il prosaico motore elettrico che le spingeva lungo la loro orbita era stato scelto proprio di misura, per sopportarne il peso considerevole.
Quando alla stagione delle castagne, passando per la piazza dopo il tramonto, gli parve di vedere la lancetta dei minuti segnare un'ottimistico sei e tre quarti, mentre il suo cipollone da tasca segnava ormai le sette e il suo stomaco, attendibile come un cronometro svizzero, confermava oltre ogni dubbio che era ormai ora di cena, ebbe la tentazione di fermarsi per guardare meglio, ma la nebbia era così fitta da oscurare anche la facciata del duomo in fondo alla piazza e il suo tabarro era già fin troppo pesante e freddo per l'umidità accumulata. A casa la polenta doveva già fumare sul tagliere e il coniglio alla cacciatora era sicuramente pronto, in caldo sulla stufa, per farle compagnia. Si rincagnò il cappello e tirò dritto.
La mattina seguente doveva partire presto per un viaggio lungo. La nebbia era ancora più fitta, ma la sua bicicletta da bersagliere sapeva la strada meglio di un vecchio cavallo. Quando incontrò la prima frasca, il sole era già arrivato alla cima degli olmi e stava facendo del suo meglio per spuntarla sulla nebbia, ma non ci era ancora riuscito. Meglio fermarsi a bere un mezzo litro al caldo e lasciargli il tempo di fare un po' di chiaro, prima di ricominciare a pedalare. In alto al centro, proprio sopra il bancone dell'oste, c'era un grosso orologio tondo, apparentemente fermo da un pezzo. Non una pendola, ma un grossolano sveglione da muro con il quadrante ingiallito dalle cacche di mosca e un dito di polvere unta dovunque fosse in grado di depositarsi.
"Va bene quell'orolgio?", domandò all'oste prima di sedersi sulla panca vicino alla stufa accesa. "Altroché, segna sempre che è ora di bere. Cosa vi porto?" Quando, con il toscano acceso in bocca, tentò di rimettere in carreggiata la bicicletta, si accorse che la sosta all'osteria le aveva fatto male: non era più capace di andare dritta. Un inesperto avrebbe potuto cercare una relazione fra i tre mezzi litri di lambrusco e le spettacolari oscillazioni della partenza, ma lui che inesperto non era, pedalò con maggiore determinazione, ben sapendo che se fosse sopravvissuto in sella ai primi metri, bici e strada avrebbero finito con il trovare un autonomo equilibrio, sufficiente per avanzare se non proprio per andare dritto, poi l'aria fresca avrebbe soffiato via anche la nebbia che aveva in testa. E così fu.
Verso mezzogiorno, con il sole bello alto e ormai vittorioso, quando gli austeri filari di pioppi cipressini, dominanti dagli alti contrargini, rivelavano la presenza del fiume, ancora nascosto alla vista, trovò un'osteria adatta per passarvi la notte, certo di essere arrivato vicino al grande fiume dove crescevano anche i salici flessuosi, potati a sgamollo, che costituivano la meta del suo viaggio. Cercava un boschetto in golena di piante giovani da comprare per la sua piccola fabbrica di truciolo. In un paio di giorni contava d'ispezionare la zona e concludere l'affare. Era analfabeta, ma i conti li sapeva fare a memoria, senza bisogno di carta e lapis, per non parlare di altri aggeggi ancora da inventare. Girando senza parere fra i sentieri del bosco era in grado di valutare, a colpo d'occhio, quanto legno avrebbe potuto ricavarne per i suoi pagliari che, a casa, avrebbero provveduto a segare in pezzi i lunghi rami, grossi come un braccio, a scortecciarli e a ricavarci tutte le paglie che si potevano ottenere, scartando solo un mazzuolo, troppo sottile per essere lavorato, buono solo per il camino o per mescolare la polenta nel paiuolo.
Quando scartò sul tavolaccio la sua bella fetta di gorgonzola, portata da casa per ogni emergenza, in attesa che l'oste gli portasse il pane e il primo mezzo di rosso, la pendola attaccò a suonare mezzogiorno. Finalmente un orologio in punto, che andava d'accordo con quello del suo stomaco, il solo di cui si fidava ciecamente. In un lampo gli tornò in mente l'orologio di piazza, chissà se stava battendo anche lui i dodici rintocchi?
Di fronte gli stava seduto uno che doveva già aver finito di mangiare. Fumava la pipa e ogni tanto allungava la mano per una carezza rustica al suo cane, accovacciato sotto il tavolo: nessuno dei due parlava, ma avevano l'aria d'intendersi bene ugualmente. "Ce n'è, quest'anno" "Di trifola ce n'è sempre, se uno ha un buon cane e sa dove dirgli di cercarla" "Allora ne avrete trovata anche oggi, me ne vendereste una patata o due?" "Due piccoline, va bene? E' trifola nera, ve la dò per dieci scudi" e mentre parlava, il trifolaro si alzò trattenendo a terra con una occhiata il cane che, escluso dalla trattativa, lo guardava con aria interrogativa. Raggiunto il tavolaccio, vi posò due tartufi poco più grossi di una noce che furono prontamente intascati, terra compresa. Il pensiero che i suoi vestiti e l'intera sua persona non si sarebbero mai più liberati da quella puzza pregiata non lo sfiorò neppure. A lui piaceva quell'odore, perfino più di quello del toscano e sua moglie aveva un bel da arieggiare al sole le sue giacche, non c'era niente da fare. Quando, alla fine della settimana, la sua bicicletta lo riportò a casa, era già scuro da un pezzo, ormai l'ora di cena. Allungando un po' la strada passò dalla piazza; l'orolgio segnava le sette meno un quarto: bel caso. La stessa ora, precisa. Che fosse fermo? La domenica mattina, con il tabarro della festa, a due dritti, e un cappello quasi nuovo andò in piazza, dove si erano già formati i soliti piccoli crocchi dei giorni festivi. Alzando gli occhi verso la torre, gli passò ogni dubbio: l'orologio era proprio fermo. Domandò in giro: chi disse che ci aveva nidificato una poiana, chi spiegò che c'era stato un cortocircuito dopo un temporale che aveva bruciato irrimediabilmente il motore elettrico, un paio di filosofi a piede libero sostennero che anche gli orologi invecchiano, come tutti i cristiani, e, alla fine, si fermano, ma tutti concordavano nel dire che sarebbe stato sostituito con uno più moderno, nuovo di zecca, che era già stato ordinato dal sindaco in persona nella foresta nera, dovunque si trovasse 'sto bosco. "E le sfere? Cambiano anche quelle?" "No, cosa c'entra, le lancette vanno sempre bene; poi belle così non le sanno più fare" Il capolavoro del nonno sarebbe stato salvo ancora per un pezzo, allora; cambiassero pure la macchina nascosta dietro la facciata della torre; anche se era forestiera, chi la vedeva quella? Le due poderose lancette di ferro battuto, invece, non sarebbero durate in eterno, ma, di sicuro, avrebbe fatto in tempo a morire prima di loro, senza vederle arrugginire fra i rottami.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 02 dicembre 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)