Trentadue pezzi

– Lo sai che sei solo?
– Solo cosa? Sei in vena d’insulti, recriminazioni e roba del genere, ancor prima di aver cominciato a giocare?
– No, solo e basta. Solo al mondo, insomma.
– E tu?
– Oh, anch’io, naturalmente.
– Ma se siamo in due, come facciamo ad essere soli?
– Si può essere soli anche in mille.
– Un esercito di soli, allora. Musicalmente c’è una bella differenza fra coro e solista.
– Lo so e il solista è tenuto im maggior considerazione di un corista, ma io parlo d’altro.
– Avevo capito, ma tentavo di deragliarti dalle tue paturnie. Secondo te cosa ci guadagniamo a sapere che siamo tutti soli al mondo?
– Be’ è meglio sapere come stanno le cose senza illudersi.
– E chi l’ha detto? Tutti sappiamo di essere condannati a morire, presto o tardi, ma coltiviamo tenacemente l’illusione di avere ancora molti anni da campare davanti a noi, anche da vecchi, a volte.
– Insomma sostieni che un’illusione menzognera è meglio della verità nuda e cruda?
– Intanto smettila di parlare come un fotoromanzo; dico solo che non bisogna crogiolarsi in pensieri malinconici, anche se non privi di qualche fondamento. Metti a posto i tuoi pezzi, nel frattempo.

Evolution o devolution?

Per chi non lo sapesse, io fumo la pipa e la fumo da sempre, salvo un breve vuoto iniziale, quando portavo i calzoni corti e mi limitavo a tenere in bocca le piccole pipe figurate in legno di pero scolpite a forma di curiose faccette, magari con la barba e gli occhi brillanti di corallini incastonati al punto giusto. Al ginnasio fumavo la camomilla, poi passando al liceo, ebbi il permesso di caricare il fornello con il tabacco. Allora le tabaccherie avevano la gloriosa insegna ovale di ferro smaltato che ne testimoniava la funzione di appalto per la vendita di sali e tabacchi del monopolio di Stato e, in effetti, vendevano poco d’altro. Le sigarette Alfa e le Nazionali si vendevano anche sfuse in piccoli sacchetti di carta che ne potevano contenere fino cinque.Anche se comprarle una alla volta non rendeva l’acquirente particolarmente popolare agli occhi del tabaccaio, ricordo che miei compagni di scuola lo facevano per conciliare la voglia di fumare con i pochi soldi in tasca di cui disponevano.

All’epoca i tabacchi da pipa disponibili erano pochi e proporzionati alle tasche semivuote dei fumatori: imperavano i trinciati nazionali – forte, medio e leggero- confezionati malamente con la stagnola in pacchetti rettangolari, scomodissimi, simili ad un pezzo di sapone sottile. Il trinciato forte, in particolare, era micidiale. Circolava la battuta che fosse il più potente insetticida contro le pulci, se mescolato a polvere di marmo. I famigliari insettini, annusandolo, non avrebbero potuto evitare di starnutire clamorosamente e sbattere così la testa contro il marmo con una zuccata fatale.

Chi poteva permetterselo, aveva a disposizione due soli tabacchi esteri: Il Revelation americano e il Price Albert, inglese, venduto in una elegante scatola di ferro spessa un dito che si apriva in alto, nel modo più scomodo possibile, con un coperchietto ricavato nello spessore della scatola. Era una di quelle scatole robustissime che hanno salvato la vita al soldato più fortunato del West, sbarcato in Nomandia il D-day. Il protagonista della miracolosa deviazione di un proiettile sparatogli al petto è ancora vivo e ha raccontato la sua avventura durante la ricostruzione dello sbarco, apparsa la scorsa settimana su “Ulisse” di Piero e Alberto Angela. Ultraottantenne arzillo, ha mostrato alle telecamere la scatola salvavita bucata : poi dicono che fumare la pipa fa male.

A partire dagli anni ’60 anche noi derelitti fumatori di pipa italiani abbiamo vissuto la nostra età dell’oro: sugli scaffali dei tabaccai, finalmente, è comparsa una fioritura di decine di scatole e, soprattutto, di economiche e comodissime buste di tabacchi olandesi, danesi oltrché inglesi e americani. Uno spasso. Anche il monopolio di Stato fece un exploit mettendo in commercio “mixture” nostrane del tutto onorevoli e perfino confezioni di tabacchi puri (Virginia, Burley, Kentucky, Latakia…) da mescolare a proprio piacimento per ricavarne la propria mistura personale come, da sempre, hanno potuto fare gl’inglesi. Ricordo che da ragazzo, durante le vacanze londinesi, non mancavo mai di farmi preparare una piccola scorta di scatole tonde con il coperchio a vite confezionate espressamente per me, secondo i miei gusti e in mia presenza, dal tabaccaio di Charing Cross Road.

Ma la bella stagione è finita da un pezzo: ormai i tabaccai sono una specie in via di estizione. Al loro posto, si aggirano dietro i banchi degli spacciatori di sigarette in pacchetto: giovanotti e ragazze che di sigari e tabacchi non sanno nulla. “Le vuole morbide o dure?” cinguettano, esibendo la loro alta competenza professionale. Nelle prestigiose vetrine di storici tabaccai del centro hanno rimpiazzato bellissime pipe ed eleganti accendisigari con pupazzetti ed altre cianfrusaglie inguardabili e per procurarmi lo Sweet Dublin, che fumo da vent’anni -un popolarissimo tabacco danese veduto in tutto il mondo civile- devo scarpinare per mezza Bologna. Colmo dei colmi: il tabaccaio di Palazzo Re Enzo, il cuore della mia città, è sprovvisto di scovolini. “Non li tengo più, mi dispiace”, ha avuto il coraggio di confidarmi.

Evolution o devolution?

Bologna: sullo sfondo di palazzo Re Enzo il Nettuno.

La vida es sueño

  • La vida es sueño
  • “¿Qué es la vida? Una ilusión…
  • … una sombra, una ficción,
    y el mayor bien es pequeño:
    que toda la vida es sueño,
    y los sueños, sueños son.
  • Ehi, Caldoron, versi alati, stamattina. Cosa ti prende?
  • Niente, mi son svegliato così. Mi si devono essere appiccicati durante il sonno. In sogno, forse.
  • Sogni in ispagnolo, adesso?
  • Magari, mi piace moltissimo lo spagnolo: esotico e famigliare nello stesso tempo, per non parlare delle spagnole che lo parlano a mitraglia, come niente fosse.
  • A me piacerebbe sognare in una lingua che non capisco neanche io, ma che padroneggio come un poeta, durante il sogno. Magari una lingua perduta, antichissima.
  • Bellissimo! Potresti sognare in sanscrito: la madre di tutte le lingue indoeuropee.
  • Anche le figure dovrebbero essere all’altezza, però.
  • Naturalmente. Ci vorresti anche gli elefanti e le tigri, o animali ancora più esotici, magari scomparsi?
  • Sì, tutto e anche maliose indiane e fiumi maestosi e montagne innevate inattingibili, sullo sfondo di risaie verdeggianti
  • E che avventure ti capiterebbero? Ti piacerebbe fare il profeta, ascoltato e riverito? Sarebbe un’occasione unica, ti pare?
  • Il profeta dici? E mi ascolterebbero, assorti e rispettosi, quando predicessi loro un mondo migliore di giustizia e benessere per tutti.
  • A patto che tu non lo preveda in tempi troppo vicini, altrimenti scoprirebbero che sogni
  • Ma non stavo, appunto, sognando?
  • Sì, ma questo lo sapevamo solo noi due.
  • Fortuna che non ho capito una parola delle mie profezie
  • Ma il suono della tue parole era bellissimo, lasciatelo dire da un vecchio amico sincero; sembravi un libro stampato.
  • In devanagari, l’alfabeto divino, immagino.
  • …toda la vida es sueño, y los sueños, sueños son..

In alto,” Las visiones de Quijote” di Octavio Ocampo
In basso: “Il pensatore di Escher osservato dal terapista di Magritte” di Jos de Mey

Addio bella principessa

2 novembre 2004

“Dopo il matrimonio di V., la vendiamo. E’ inutile lasciarla intristire al sole e alla pioggia, coperta di foglie e aghi di pino”. Questo era stato il fiero proposito, ma in realtà è passato un altro anno e mezzo, prima che l’evento malinconico avvenisse. Venerdì scorso, però, abbiamo venduto la Jaguar con lo spirito di chi compie un dovere sgradito che non può essere ultreriormente rimandato. E’ dispiaciuto a tutti, perfino ad AM che, per misteriose ragioni, non hai mai voluto guidarla, benché fosse un autentico spasso.
Era bellissima, confortevole, silenziosa, veramente principesca, ma ormai la usavamo pochissimo. Da un paio d’anni, io ho smesso di girare per l’Italia come una trottola e, qui in città vado esclusivamente a piedi o in moto o in bici. Per i nostri giri&giretti, in coppia o in formazione completa, usiamo la monovolume diesel che funziona benissimo e non consuma un accidente, quindi… addio bella principessa, sei rimasta nel nostro cuore.

Malinconia

Non ci pensare, cosa vuoi che sia
Hai passato gli …anta
e il tempo scappa via?
Se li metti in fila
e li stai a contare
ogni giorno che passa
ti fa tribolare.
Sei in salute e bella che fai voglia
e quando parli ti stanno ad ascoltare.
Hai figli e nipoti che ti vogliono bene
una casa grande e un marito affezionato
da dove sbucano tutte le tue pene?
Dormi la notte e digerisci sassi
e il dottore? non sai neanche chi sia
In casa fai tutto quello che ti pare
e quando passi per strada si fermano a guardare
Quando ti salta addosso ‘sta malinconia,
non te la prendere, lascia che ti passi
fa una piroetta, mangia una torta,
bevi un bicchiere e ridi in allegria
Ma bada bene, questa non è una baggianata mia
è una ricetta di grido a cinque stelle
l’ho letta sul libro di psicologia
fra la torta di riso e le ciambelle
L’immagine è di Fernando Botero, com’è facile riconoscere.

Nature morte

Oggi solo due nature morte di Fernando Botero: un’austera colazione da consumare appena svegli, durante la lettura del giornale del mattino, secondo il costume latino e una sostanziosa merenda, per combattere la debolezza a metà del pomeriggio.
Questi dipinti sono sicuramente meno caratteristici di quelli con figure umane, ma offrono un panorama interessante sull’alimentazione che bisogna seguire per diventare belli cicciotti e rubicondi e raggiungere, così, la forma che rende uomini e donne degni di essere ritratti da parte di Botero.

Se un caffè fumante “all’americana”, da bere a litri, una tazzona dopo l’altra, e un’arancia succosa possono bastare al risveglio, per la merenda, sullo stesso tavolino semiapparecchiato, bisognerà mettere, oltre all’immancabile frutta fresca (limone, arancia, mapo, ciliege e cocomero), una ciotola di pere sciroppate e, per finire in bellezza, savoiardi glassati, una mousse turgidissima e una torta di cioccolata riccamente glassata.
Resta il mistero della zuppiera. Sul suo contenuto non trapela alcun indizio, ma la sua forma pingue fino a scoppiare ci rassicura: non potrà certo contenere un anemico, insensato brodino.

E la chitarra? Ci devo pensare.

Carambola!

Non sapevo che la carambola ( Averrhoa carambola ) fosse anche un frutto subtropicale noto nei paesi anglosassoni come starfruit per la forma di stella della sua sezione che la rende particolarmente adatta per guarnizioni spettacolari su esotiche crostate di frutta.
E’ un albero di otto~dieci metri a lento accrescimento, con una chioma fitta e ramificata che produce copiosi frutti gialli; soffre il freddo e i venti molto caldi e secchi. Insomma è meglio non piantarla nei nostri giardini che soffrono temperature invernali abbondantemente sotto lo zero, ma cresce bene a Ceylon, nelle isole Molucche, in Malesia e in zone climatiche simili. Se appena appena resistesse, sono certo che ne avrei ammirato larghi appezzamenti durante le mie scorribande nelle colline faentine che hanno già conosciuto l’ apoteosi del kiwi, originario della Cina (nota con il nome yang-tao) e dei cachi, anch’essi originari della Cina del nord e del Giappone.

Quando eravamo ragazzi, il termine carambola indicava un popolare gioco al biliardo a stecche, da giocare con tre palle, se ricordo bene. I giornali lo usavano anche in senso metaforico, per indicare un movimento convulso e catastrofico di auto coinvolte in un incidente stradale: “La fitta nebbia ha provocato una carambola di auto che hanno ostruito per ore la corsia Nord…”, ma il frutto esotico non era ancora sbarcato neppure nei più sofisticati banchi di frutta. Non l’aveva neppure “Cartier”, così nominato per i prezzi popolari della sua frutta e verdura.

Ricordo invece, quando all’uscita da scuola, stanchi e scorbacchiati per una versione impossibile di greco, ci ritrovavamo davanti “Beppe”, un compagno di lungo corso che è stato a scuola almeno un anno con tutti i liceali bolognesi di una generazione, prima di comparire inopinatamente con il cappello da “fagiolo”, senza passare prosaicamente per la maturità e l’altrettanto inevitabile anno da matricola.

Era un mago della carambola e della goriziana, alle quali dedicava devotamente mattine intere, senza perdere tempo a scuola. Il suo spasso maggiore, tuttavia, consisteva nell’aspettarci, puntuale, all’uscita delle lezioni per squadernarci sul muso un ventaglio di banconote da mille che aveva appena vinto all’Accademia del biliardo. Al gesto di sberleffo, per lo più aggiungeva un signorile: “Cretini, guarda qui cosa ho vinto stamattina!”

Calendule grecule

  • Vado e torno.
  • Bada che l’ha detto anche Giulio Cesare, poi s’è beccato una coltellata nella pancia.
  • Sì, ma adesso hanno abolito le idi di marzo.
  • Oramai non c’è più festa che resita. Vogliono abolire anche il sette novembre in Russia.
  • Troppo freddo. Le feste andrebbero celebrate in posti caldi, ti sembra?
  • E se vengono bene, vanno ripetute.
  • Anche il Natale?
  • Quello no, non mi piace, ma il primo maggio si potrebbe farlo anche due o tre volte all’anno.
  • Perché, ti disturbano le feste religiose?
  • No, no, a me no. Se ti dico che lo farei anche tre volte all’anno.
  • Ma il primo maggio non è mica religioso.
  • Infatti, anche secondo me, poi danno le primule alle mamme. E’ gentile, più che religioso.
  • Bello. Sono mimose, però. Mi è sempre piaciuto il loro colore, bello giallo, ma preferisco il profumo viola del glicine…
  • …e quello bianco del gelsomino, ma quello dei gigli, invece, mi da fastidio, anche se è proprio bianco: mi puzza troppo di cimitero.
  • Eh, caro mio… Per fare un albero ci vuole un fiore, c’è anche una canzone.
  • La ricordo. Bellina. E’ tutta una tiritera, come quell’altra degli elefanti appesi a un filo di ragnatela
  • Sai che non ho mai capito perchè ai bambini insegnino tante stranezze. Dev’essere una questione di psicologia.
  • Quella sì che è una scienza coi baffi. Bisognerbbe insegnarla a tutti, come le tabelline, che però restano sempre il massimo.
  • L’hai detto, sono intramontabili. Quando uno sa quelle è a posto dovunque vada, perché le moltiplicazioni sono uguali in tutto il modo.
  • Verissimo: tutto il mondo è paese. C’è chi mangia con i bacchetti, chi con il cucchiaio, chi con le mani, scusa la parola…
  • … non ti devi vergognare: sono un dono di dio, come gli uccellini, il mare, il cielo…
  • Sei proprio un poeta. Ti vengono così, a te. Un altro dovrebbe strologare giorno e notte.
  • Sei gentile, ma ti giuro che quando mi passano per la testa questi pensieri, io non ci penso neanche.
  • E io cosa ho detto? Sei un poeta nato e sputato, nel senso buono, si capisce.

Nell’immagine, una festosa celebrazione del Primo Maggio in piazza Maggiore a Bologna

Elogio del “carriolino”

Carrozze e carri sono diventati ormai cimeli in un’epoca in cui limousine, berline e autocarri s’incaricano di trasportare uomini, animali e merci, spinti da poderosi motori da decine o centinaia di cavalli-vapore. La mancanza di uomini-vapore ha invece conferito maggiore longevità a carretti e carriole che, nel loro modesto ambito, continuano a resistere. In oriente, persiste ancora il risciò che è comparso, recentemente e fuori da ogni tradizione, anche a Torino ed in qualche altra città italiana, in versioni moderne con cambio e pedalata potenziata elettricamente.

La carriola è di gran lunga il mezzo più originale con la sua spiccata assimmetria, conferitale dalla presenza di una sola piccola ruota. Meno originale, ma più facile da manovrare e più capace è il carretto a mano, fonito di due ruote a raggi, di solito della dimensione e foggia di quelle da bicicletta. A differenza della carriola, ancora largamente presente nei cantieri, è diventato una mezza rarità e chi lo possiede è spesso infastidito dalla richiesta di prestito da parte di vicini che, all’occasione, ne riscoprono la rustica utilità per brevi trasporti di masserizie e di oggetti anche ingombranti, ma poco pesanti.
Chiunque è in grado di manovrarlo anche in logge, portici e stretti passaggi, senza sottoporsi ad un grande sforzo muscolare e la sua manutenzione ed i costi di esercizio sono veramente irrilevanti.
Questi sono i pro, il solo contro è il suo ingombro: non si ripiega e non si smonta, neppure laboriosamente. Sia durante lo svolgimento delle sue preziose funzioni, sia durante i presumibilmente lunghi periodi di sosta, occupa cinque o sei metri quadrati: un rimessaggio oneroso in una città affollata di uomini e soffocata dalle auto. Così finisce con l’essere abbandonato alla pioggia finché la ruggine non se lo porterà via, lentamente, ma inesorabilmente.
Chi non ha mai posseduto un “carriolino”, come si dice dalle mie parti, non sa che cosa si è perso.

Nell’immagine un carriolino abbandonato sotto un portichetto di via Mirasole, a Bologna.

Se c’avessi un bel giardino

Se c’avessi un bel giardino
pieno d’erbacce di tutti i colori
vi lascerei crescere i fiori:
ma quelli spontanei, portati dal vento
o dal passaggio di qualche uccellino.
Vorrei anche un melo, ma piccolino
un ciliegio, un albicocco e un gelsomino
Sul tronco storto di un fico nostrano
vorrei una vite d’uva da vino.
Non vorrei rose né siepi potate,
non pomodori, carote o insalate,
ma se un calicantus dal profumo delicato
mettesse radici in un angolino
sarei davvero il più fortunato
e per non perdermi la festa
anche d’inverno aprirei le finestra.
Ma un bel giardino io non ce l’ho,
solo una stanza, tre sedie e un comò.
Così, quando il freddo fa battere i denti
chiudo i vetri, accendo il camino
e guardo l’edera nel suo cestino
abbandonarsi al suo triste destino,
sognando un esotico maestrale
che la rapisca dal mio davanzale.

Senzanome

Chi pretende la simmetria e l’unformità farà meglio a guardare per terra, se gli capiterà di passare in via Senzanome, una delle strette strade del centro storico di Bologna. Qui l’individualismo più spensierato e l’esigenze abitatative personali hanno trovato il più ampio sfogo per consolidarsi, immutate nei secoli, nell’anarchia più disinvolta.
Se non passeranno le ruspe demolitrici di un novello Napoleone che sfondi, smantelli e cancelli secoli di sedimentazioni urbanistiche, aprendo larghe strade diritte per il passaggio di truppe e cannoni, c’è da pensare che porte e finestre di tutte le misure e di tutti i colori continueranno a coesistere allegramente l’una accanto all’altra, come fanno da sempre.

Anche il nome della strada che ospita tanta stravaganza e spontaneità architettonica è adeguato: via Senzanome, non è certo banale né comune.
E’ abbastanza noto ai bolognesi che a determinare il nome fu una frettolosa riqualificazione toponomastica, in nome della decenza più bacchettona e priva d’inventiva, da parte di un funzionario comunale in occasione della visita pastorale dell’arcivesco alla contrada. I popolani che l’abitavano l’avevano sempre chiamata via Sfregatette, per sottolinearne la larghezza angusta che costringeva i passanti a sfiorarsi, non senza qualche gustoso vantaggio.
Per qualche imperscrutabile ragione, passata la festa, nessuno ha poi provveduto ad attribuirle un nome meno stravagante e provvisorio o a ripristinare il vecchio toponimo popolare, che invece, generazione dopo generazione, ha finito col soccombere alla indiscutibile ufficialità del nome inciso sulla tabella, per sopravvivere solo nelle leggende urbane.
Dell’altrettanto stravagante toponimo “Centotrecento” attribuito ad un’altra strada popolare di Bologna, parleremo in altra occasione.

“Ma che burloni!” direbbe Gilberto Govi.

Clicca sulle due immagini piccole di via Senzanome per ingrandirle-

Una supposta azzardosa