La valle del Sillaro

Sabato scorso, dopo le abbondanti nevicate, abbiamo risalito la valle del Sillaro: un piccolo fiume appenninico in provincia di Bologna che molti considerano come il confine fra l’Emilia e la Romagna storica.
La valle parte dalla periferia occidentale di Castel San Pietro, noto per le sue terme, e culmina nel paese di Sassoleone a quota 500 metri s.l.m. E’ una vallata abbastanza ampia, percorsa da una strada tortuosa che corre a fianco del fiume, meta di appassionati di ciclismo che, in solitario o in piccoli drappelli travestiti di tutto punto da ciclisti, la risalgono mettendo alla prova gambe e fiato sulle salite che si alternano al bassopiano. Ci attendevamo una insolita copertura nevosa e così fu. Colline e calanchi erano bianchi ovunque e gli alberi lungo il fiume e intorno ai borghetti sulle cime dei colli risaltavano, anneriti dal contrasto luminoso, sullo sfondo dando vita ad un paesaggio in bianco e nero.

La padrona del ristorante di Sassoleone, un ambiente familiare annesso al caffè del paese, dove si mangia bene e si beve un buon Sangiovese prodotto in casa, ci confermava che le nevicate di quest’anno sono state più abbondanti e tardive del solito. Ci siamo arrivati all’una e mezza: tardi per le abitudini locali che collocano l’ora del pranzo verso mezzogiorno. Così eravamo completamente soli nella sala del ristorante dove i bambini di casa avevano abbandonato i loro pastelli, album e quaderni su di un tavolo e la sala vicina del caffè era, invece, affollata di paesani impegnati nella briscola o in vena, semplicemente, di chiacchiere.

Sulle pareti del ristorante i soliti brutti dipinti di qualche pittore locale e le foto di viaggio dei padroni: una giovane coppia con due figli in età scolare che preferisce i siti archeologici del Messico alla spiaggia di Gabicce. Anche dai paesini di montagna, un tempo isolati per tutto l’inverno, ci si muove, dunque, e con buon gusto, come testimonia un ritratto di famiglia nel suggestivo spiazzo per la pelota di Chicén Itzà. La cosa ci ha fatto molto piacere e ci ha rallegrato almeno quanto le simpatiche tovaglie stampate con i classici motivi della tradizione romagnola di Gambettola e Sant’Arcangelo sulle quali abbiamo mangiato bene e in assoluta tranquillità.

Le foto che accludo a queste chiacchiere sono montate ad album e ritraggono alcuni scorci della valle del Sillaro dopo le recenti nevicate.

Non saprei dire

“Non saprei dire”. Che cosa?, tu mi dirai. Niente, è lì il bello. Per non saper dire non occorre un oggetto su cui focalizzare il sapere. E’ una formula garbata di disimpegno con il suo bravo condizionale che conferisce sempre una sfumatura di gentilezza inerme che lascia completamente a bocca asciutta l’interlocutore avido di un’ informazione o, semplicemente, di un parere, ma senza infliggergli un “Non so” brutalmente negativo o un “Bo?” ancora più spudoratamente sbrigativo.

C’era una scuola di pensiero, acclimatatasi nelle isole britanniche meglio che altrove, che sosteneva l’opportunità di rispondere sempre in modo positivo ad una richiesta o ad una domanda, relegando la negazione nella parte terminale e conclusiva di una risposta elaborata. A biliardo corrisponderebbe ad un colpo di “calcio” che abbatte vittoriosamente i birilli soltanto nella corsa di ritorno, rimbalzando sulla sponda dopo una compiacente corsa di andata,
Un esempio ambientato ad una fermata d’autobus:
“Ferma qui il 16?”
“Sì, un tempo credo proprio fermasse anche qui, ma malauguratamente non lo fa più”

Quale il vantaggio di questa tecnica tortuosa? Non saprei dire, tuttavia ha goduto di una certa popolarità in epoche e luoghi lontani. Se per civile intendiamo il comportamento più rispettoso delle convenzioni in voga fra la gente “ben-educata” in un certo luogo e periodo storico e più lontano dall’animalità più naif, potremmo concordare che si trattava di un modo civile di rispondere e, volendo spingerci più oltre, potremmo anche affermare che “…fanculo” o un grugnito sono incivili, benché godano di un’indiscussa e crescente popolarità.
“Ma cè forse qualcosa di male in un gruglito?”
“Nth!”

Palloncini e palloni gonfiati

Riteneva che i palloncini non fossero altro che palloni gonfiati e viceversa. Su questo rigido parallelismo semplicistico si sviluppò la sua brillante carriera. La tentazione di vederli scoppiare con un bel botto per ridursi ad un misero cencio inconsistente lo prendeva all’improvviso, senza lasciargli scampo. Se si fosse limitato ai soli palloncini, lo si sarebbe scambiato per un semplicione afflitto da infantilismo dispettoso, qual era, ma quando puntava il suo spillo, nella forma di plateali battutacce adulatorie, contro un suo superiore l’esplosione avveniva ugualmente, ma chi scoppiava e finiva in brandelli era lui stesso.
La pletorica struttura dell’amministrazione comunale, in cui era entrato subito dopo la laurea, era per sua natura incapace di clamorosi licenziamenti ed anche la caienna di trasferimenti punitivi in province remote era preclusa, ma non per questo la sua vena iconoclastica sarebbe rimasta senza compenso

Il primo pallone gonfiato su cui puntò il suo spillo non era che un modesto impiegato con un’anzianità maggiore alla sua, ma destinato a vedere frustrate le sue ambizioni, non tanto per l’inettitudine che lo accomunava a tanti altri suoi colleghi, ma per l’antipatia che la sua prosopopea stantia suscitava. Era dotato geneticamente di una rara varietà di sgodevolezza a largo spettro che sapeva imporsi indistintamente a tutti quelli che lo frequentavano.
Quando Carlone cominciò a punzecchiarlo con forme adulatorie sempre più frequenti e così smaccate da insospettire anche un principe, trovò un claque superiore alla sue attese fra i colleghi che se se la godevano un mondo nel vedere, finalmente, lo spocchioso Balestrazzi spalancare la sua coda di pavone sotto la valanga di complimenti, falsi come denti d’oro. Il successo ottenuto con la sua prima performance lo spronò a perseverare nel suo sport, nella convinzione che ne avrebbe guadagnato in popolarità e, per giunta, senza pagar dazio. Così, in occasione di una riunione plenaria di tutto lo staff, si scatenò in un elogio così spudoratamente adulatorio sulla profondità del discorso programmatico del suo capo, niente di più della solita aria fritta, che risultò chiaro perfino all’oratore che si trattava di una presa in giro sfrontata.
In capo ad una settimana si ritrovò in un piccolo locale del seminterrato, appena illuminato da bocche di lupo, a ricontrollare i registri delle minute spese dell'”Ufficio igiene e manutenzione ordinaria”, un incarico così squallido e privo di orizzonte quanto il locale che l’ospitava.
Difficile scendere più in basso, eppure, anche dal profondo di quella sentina, la sua verve, ormai ammuffita, trovò modo di punzecchiare, durante le sue rare apparizioni, il responsabile dell’ufficio: un esangue impiegato in attesa di pensionamento, che fingeva con se stesso di avere una mansione per non soccombere completamente alla noia. Non disponendo di un incarico operativo di rango inferiore né di un locale più isolato e impraticabile, eccetto lo stambugio della caldaia, lo promossero rappresentante sindacale a vita: per definizione, il pallone gonfiato più vuoto e intoccabile dell’intera compagnia.

Bici e tricicli dell’ottocento

Da piccolo, ricordo che mi divertiva moltissimo uno sketc di Carlo Dapporto sul meccanico della Bianchi che assisteva Fausto Coppi, il “campionissimo” in un’epoca in cui il ciclismo era altrettanto popolare del football oggi. “Mi sun Pinella, meccanico della Bianchi. La bicicletta, la parte più importante è il cambio: fili non fili son trentasei pessi…” questo era l’attacco in un piemontese strascicato quale mi pare di ricordare a cinquant’anni di distanza. La Bianchi verdina con cui Coppi, (assistito da Pinella e dal massaggiatore cieco Biagio Cavanna, anche lui piemontese) vinse il giro d’Italia nel 1953 è tuttora esposta nel museo della scienza di Milano e quel particolare colore è rimasto, da allora, il colore delle Bianchi. Anche in famiglia ne abbiamo avuta una; era della misura adatta ai miei figli quando avevano 9/10 anni.

Sull’argomento biciclette ritornerò. Per oggi chiudo con un album (in formato pdf) di rare bici storiche cominciando da quella realizzata partendo da uno schizzo di Leonardo (1490) contenuto nel Codice atlantico seguito da una serie di foto del museo americano Owls Head Transportation Museum. L’ultima foto dell’album raffigura una bici da donna che è quasi identica a quelle che si possono comperare oggi in un negozio. Ma l’evoluzione continua…

Jojo

Le sue prime foto erano autoritratti, ma senza occhi e senza bocca. Lui le foto le disegnava con i pennarelli su di un foglio di carta e al posto della faccia scriveva il suo nome: diceva di non sapere disegnare i suoi occhi e la sua bocca. Il linguaggio verbale non era pane per i suoi denti, così per esprimersi disegnava foto

Aveva dodici anni, due sorelline gemelle più piccole, una madre molto giovane che si era innamorata di suo marito quando lui si esibiva come musicista in locali notturni della banlieu parigina. Lo seguiva nei suoi concerti e lo fotografava durante le sue esibizioni. Centinaia di foto raccontavano il loro iddilio, interotto dalla nascita di Jojo che, con la sua presenza, aveva costretto il padre a cercarsi un lavoro stabile. Ma la madre, poco più che adolescente, aveva deciso di tenerselo, il suo bambino meticcio.
Il colore della pelle era uno degli aspetti più curati nelle foto di Jojo. Con sapienti sovrapposizioni di velature dei suoi pennarelli fotografava la pelle dei bambini, diversa da quella della bambine e degli adulti: i diciottenni.

Stava crescendo e attraversando una pubertà senza parole, o quasi. Non gli restava che fotografare, un foglio dopo l’altro, la sua realtà in tumultuoso cambiamento, sotto la spinta di pulsioni sessuali confuse, ma prorompenti, e farne una storia: il film della pubertà di un bambino autistico dalla pelle colorata.

Vecchie foto di Carpi

La grande casa della famiglia di mia madre in via San Francesco a Carpi (nella foto, la seconda a sinistra con i tre comignoli) era la meta dei miei primi giorni di vacanza. Venendo dalla città, “il paese” mi sembrava straordinariamente tranquillo; si poteva giocare a ping-pong nel grande cortile interno, ma anche uscirsene in bicicletta per le strade acciotolate o, addirittura andare fino al podere di Fossoli da cui tornare al tramonto, lungo l’argine del canale, con un fiasco di latte appena munto e con le albicocche, le ciliege, l’uva o i pomodori, ancora caldi di sole.
In tasca sempre la fionda, un temperino, qualche pezzo di spago e un po di fil di ferro per ogni emergenza. Lo scotch non era ancora stato inventato; la televisione non c’era ancora e la plastica non aveva ancora fatto il suo ingresso trionfale.

Nel piccolo album “Vecchie foto di Carpi” ho raccolto e rielaborato alcune immagini, già presenti sul WEB, di un’epoca ancora precedente, benché i carri dalle alte ruote appartengano anche alla mia infanzia, ma non certo il bastione delle mura. Il truciolo era ormai nella sua fase calante, in attesa di essere sostituito, a breve, dalla manifattura dispersa e dalle fabbriche di maglieria che arricchirono la città nei decenni successivi. Immutabile il Castello e i portici che lo fronteggiano nella immensa piazza: una dell più grandi del nostro Paese.

Sul truciolo vedi anche il racconto “In punto”

Pappa rapappa paaaaaaaaa

  • Hai sentito che è morto il papa?
  • Mi era sembrato. Ne hanno parlato in un giornale radio, ma di sfuggita.
  • Come è giusto, ti sembra? La morte è un fatto squisitamente privato, forse il più privato di tutti. Ci vuole delicatezza e rispetto.
  • Sono d’accordo con te. Ma cosa gli è successo? S’è saputo?
  • Vuoi dire se gli hanno sparato un’altra volta?
  • Be’, con i tempi che corrono… Ma mi sarebbe sembrato strano: era un uomo così discreto. Mai che si facesse vedere in televisione o si mostrasse in pubblico. Del resto doveva avere una certa età e da vecchi c’è poco da esibire: ci vuole compostezza, dignità, discrezione e, potendo, saggezza. Queste sono le qualità che ci si aspetta da chi ha vissuto a lungo e ha conosciuto il mondo.
  • Infatti, governava la sua chiesa, dicono, ma restando sempre in ombra, senza mai farsi riprendere e intervistare.
  • Ci mancherebbe. Un uomo nella sua posizione deve sapere stare al suo posto, poi c’è tutta una tradizione di regale distacco alle sue spalle. Ricordi il papa di quando eravamo bambini?
  • Altroché, bastava guardarlo per capire subito che era il papa. Del resto, guarda Ranieri di Monaco, che è il sovrano di uno staterello da niente: che compostezza.
  • Dignitosissimo! Non dico che la forma sia tutto, ma la spettacolrizzazione è sempre veramente sgradevole e sarebbe patetica se estesa alla morte di un vecchio.
  • Per fortuna misura e dignità sono stati l’atteggimento generale, in questa occasione. Sarebbe stato molto triste se avessimo dovuto assistere a sottolineature smodate.
  • Sono queste le situazioni in cui si vede se si è conservato il senso della misura; rallegriamoci che nessuno ne abbia approfittato per mettersi in mostra.
  • Del resto, “Morto un papa, fatto un altro”, si è sempre detto.
  • Certo, “…e la vita continua”

Pollicino

Cancellare ogni traccia del proprio passaggio terreno era diventata la sua ossessione. Sopravvissuto ad un’infanzia di stenti, la fortuna, il coraggio e l’intraprendenza gli avevano assicurato una posizione invidiabile, non solo per l’agio economico ed il prestigio sociale di cui godeva, ma anche per l’aura eroica di cui era circondato. Ormai lontano dai riflettori della notorità quotidiana, era riuscito con tenacia e senza colpi di scena a circondarsi di una confortevole sfera d’ombra, ma non gli bastava. Avrebbe voluto sparire, cancellare, da vivo, ogni traccia del proprio passato nella memoria dei suoi contemporanei.

Da eroe popolare, amatissimo da un paio di generazioni, avrebbe, invece, voluto godere della stessa damnatio memoriae riservata ai grandi, caduti in disgarazia in età bizantina. Quando l’opera sembrava ormai riuscita, improvvisamente accadeva un evento, a lui del tutto estraneo, che lo riportava in piena luce sulla stampa per una sua impresa, ormai lontana nel tempo, di cui si rimpiangeva, con nostalgia, l’irripetibilità.

In un’età in cui i più annaspavano pateticamente per apparire ad ogni costo in televisione, seppure in modo effimero, ridicolo, degradante, a lui non riusciva di sparire. Reporter intraprendenti, lo avevano scovato, filmato e ripresentato ad un telegiornale mentre leggeva un libro sotto il portico della sua casa in mezzo alla pampa argentina, a mille miglia dalla città più vicina. Perduta ogni speranza di svanire a Macondo, aveva tentato di mimetizzarsi nella grande promiscuità del Greenwich village, ma ben presto un reportages aveva documentato il suo nuovo rifugio, svelandone ogni particolare ed esaltando le sue anonime abitudini quotidiane.

Tornato in patria, nella valle boscosa della sua infanzia, lo avevano nominato senatore a vita e perseguitato con una decina di lauree honoris causa che lo avevano costretto ad apparire in cerimonie stucchevoli, in cui il suo passato gli veniva ripresentato dal rettore di turno come un fantasma immortale di cui gli era impossibile liberarsi.

Ormai privo di speranza, durante una notte insonne, gli capitò di rivedere Kaghemusha (Il sosia) e gli sovvenne di un suo doppio, emigrato in Argentina, che aveva conosciuto per caso e assunto nella sua finca. Era un brav’uomo, uno dei tanti sfortunati, originari della sua valle, che, da ragazzi, avevano cercato fortuna all’estero senza trovarla, prima che lui gli affidasse il governo della fattoria, alla sua partenza per New York.
Lo fece venire segretamente, lo vestì e istruì molto sommariamente e lo mandò a ricevere una laurea nella capitale.
I giornali, dando il giusto rilievo al’evento, riferirono che la recente malattia aveva segnato fisicamente il senatore, ma senza appannarne quello spirito che lo aveva reso un mito vivente: un unicum irripetibile a cui l’intero paese guardava come fulgido esempio di virtù civiche, modestia esemplare e cultura insondabile.

Il bugiardino

AlchimiaIl “bugiardino”, come lo chiamano gli addetti ai lavori, sarebbe quel foglietto ripiegato ad organetto che impedisce un comoda estrazione delle medicine dalla loro scatola. Da qualunque parte la si rigiri, per riuscire a raggiungere il blister con le pillole, bisogna, prima, estrarre il maledetto foglietto. Saggezza vorrebbe che lo si buttasse via immediatamente la prima volta, ma capita, invece che, in un momento di debolezza, ci si lasci andare a dispiegarlo e, giunti a quel punto, si tenti di leggerlo.

La parte iniziale, in caratteri microscopici e con linguaggio criptico, contiene la descrizione del farmaco. Non c’è mai scritto, intendiamoci, “Fa passare il mal di testa” o altre notizie utili che lo rendano chiaramente distinguibile, a colpo d’occhio, con le pillole che si occupano, invece, di combattere il mal di gola. Troppo facile, non meriterebbe l’ambito nome di bugiardino, sennò.

La seconda parte, di solito, indica in modo infido ed estremamente ambiguo la posologia, che, in italiano, vorrebbe dire quante-ne-devi-prendere e, magari, anche quando e quante volte al giorno. E’ chiaro che un bestione di 120 kg va trattato con dosi più massicce di uno scricciolo di 42, ma la faccenda non viene mai posta in questi chiari termini ponderali. Se si è fortunati, l’indicazione si sbilancia a dire: una o più pillole ogni sei/dodici ore, durante i pasti. Come dire: “Vedi un un po’ tu, gringo…”.
Naturalmente, non manca mai “… o secondo prescrizione medica” che suggerisce chiaramente che qualsiasi danno ti possa capitare, o è per colpa tua che non hai consultato il tuo dottore o sua che ti ha dato l’imbeccata sbagliata. Loro, i signori produttori di farmaci, te lo avevano detto a chiare lettere cosa dovevi fare.
Resterebbe da soddisfare anche una curiosità riguardo al numero di pasti al giorno che un cristiano, seppure afflitto da mal di testa, dovrebbe consumare, ma lasciamo perdere, perché il bello viene nella terza parte del foglietto: quella che indica i malanni che il farmaco combatte e, soprattutto, le controindicazioni.

Se uno sa di essere un tipo nervoso, propenso alle arrabbiature e a pericolosi scatti d’ira, come Alessandro Magno, desista immediatamente dalla lettura di questa ultima parte, rinunciando a gustarsi un capolavoro di malafede, ambiguità e sadismo mascherato dentro un vello d’agnello.

I più dotati di spirito, i buontemponi ipervaccinati, invece proseguano perché ne vale la pena. Nelle poche righe finali del bugiardino si concentra, infatti, tutta la sapienza comunicativa di uno stuolo di azzeccagarbugli di alto rango, strapagati per rendere minacciosamente oscure le ineludibili reticenze e le inconfessabili verità, scoperte dai medici durante le compiacenti sperimentazioni del farmaco.

In fondo FARMACON in greco non vuole dire altro che veleno, perché non alludere, allora, seppure enigmaticamente, alle potenzialità negative che sarebbe in grado di sviluppare?
Certo non si troveranno mai affermazioni esplicite del tipo: “Può provocare fantastiche emorragie allo stomaco”, ma più sottili accenni alla possibilità che “…in individui particolarmente sensibili possano verificarsi occasionalmente… ” non stonano, anzi.
Che speranze di guarigione potremmo mai riporre, del resto, in una medicina del tutto innocua o, addirittura, dal sapore gradevole? Fatalmente non si tratterebbe di nient’altro che di un banale placebo: mica panis, aqua fontis. E che ci casca? Siamo tutti furbissimi, noi.

Luky card

come un milordScambiava barattoli imbrattati di grumi di biacca con caramelle croccanti incartate in carta crespa, ma non ce la faceva ugualmente a sbarcare il lunario. Giunto ad un passo dal farsi monaco in una delle religioni maggiori, dovette desistere, quando si accorse che la soluzione dei suoi problemi avrebbe contrastato con il suo agnosticimo atavico. Tuttavia, sostenuto da una forte tempra e da sani principi, non si lasciò scoraggiare dal contrattempo.

Ormai deciso ad imprimere alla sua vita una svolta decisiva e definitiva, pensò che avrebbe trovato una soluzione migliore leggendo un manuale. “Come intraprendere una carriera sfolgorante e raggiungere un ineludibile successo” gli parve adeguato, ma il libraio ambulante non volle fargli credito, in attesa di esserne lautamente ripagato. La prospettiva dell’immancabile fortuna di cui, a breve, avrebbe goduto il suo debitore non distolse il bouquiniste dalle sue meschine pretese immediate. L’evento imprevisto appannò la sua fiducia nell’autentico valore del manuale, ma lo scampato pericolo di un acquisto incauto lo rese euforico.

Mentre svoltava l’angolo con aria giustamente pimpante, la fortuna gli si presentò nella forma di una fata bionda, adeguatamente attillata e minigonnosa, che, scorgendone una disponibilità insperata all’ascolto, lo convinse ad accettare una carta di credito golden e, per soprammercato, lo invitò a brindare al suo successo di venditrice: era il suo centesimo cliente e per lei valeva una promozione e, quasi certamente, rappresentava anche l’inizio di una carriera rampante.

La fortuna ormai era girata a suo favore. A dispetto della sua inesperienza, seppe trovare nella sua indole brillante e nell’euforia del momento la giusta ispirazione per l’impiego più proficuo della nuova carta. Fatti pochi passi, s’infilò in una sartoria maschile donde uscì, un’ora dopo, vestito come un milord, giusto in tempo per approfittare della cerimoniosa accoglienza che gli fu tributata nel ristorante accanto: un locale confortevolmente lussuoso dove si lasciò consigliare costose prelibatezze e vini adeguati.

Ne uscì satollo, soddisfatto e pronto ad imprese ben maggiori, sostenuto anche da un’ebrezza alcolica che gli permetteva di volare, quasi.

Una nuova vita lo attendeva radiosa, ne era certo e sarebbe stato sorpreso se, in quel momento, avesse potuto leggere le cronache locali del giorno dopo. Infatti, i giornali riferirono che un giovane e ricco signore aveva trovato la morte, investito sulla soglia del “Majestic” dall’auto del ministro della Salute, cliente abituale del celebre ristorante. L’identificazione dello straniero era tuttora in corso perchè, come di consueto fra i ricchi eccentrici, non aveva in tasca né denaro, né documenti, eccetto un’inutile carta di credito priva di validità.

Correggio

Ogni tanto ci capita di passare per Correggio. Qualche volta ci fermiamo anche a pranzo, come sempre, a caso. Una volta, durante la bella stagione, ci ha divertito molto la conversazione fra quattro donne sedute ad un tavolo accanto al nostro nella veranda all’aperto: in dialetto e ad alta voce, teneva banco una delle quattro che raccontava come avesse trasformato casa sua in una specie di ristorante per figli e nipoti, molto indaffarati, ai quali, a pagamento, preparava da mangiare ad orari diversi con un’attività quasi professionale. Le quattro pensionate, non certo baby, esprimevano un’energia e un’allegria straordinarie, quasi contagiosa.

Da piccolo durante lo scorcio di vacanze estive che trascorascorrevo a Carpi, Correggio era una meta di sgroppatine in bici, con il pretesto di andare a prendere un gelato. In un gruppetto di amici, facevamo i 18 kilometri assolutamente pianeggianti, ma assurdamente tortuosi, lungo una stradina con pochissimo traffico, quasi una ciclabile in aperta campagna. Oggi tutto il paesaggio è stravolto e quasi irriconoscilbile: il progresso che avanza.

Il corso centrale di Correggio, però, conserva ancora la vecchia pavimentazione con ciotoli di fiume interrotta dalle piste di pietra liscia: una benedizione per i ciclisti, tuttora numerosi. Alcuni interni delle vecchie case sono state restaurate con buon gusto, ricuperando al pubblico passaggio aree cortilive, corridoi e logge, un tempo private. In uno di questi cortiletti di passaggio si trova l’inquietante scultura in legno di cui riproduco la sommità, qui accanto.

La perla della cittadina, un po’ più esterna, resta il Palazzo dei Principi, sede della corte dei Da Correggio all’inizio del ‘500, restaurato con cura dopo un lungo abbandono ed il terremoto che ha colpito duramente l’intera zona nel1996 e nel 2000.

Vale una visita rilassata, sia il bel cortile quadriporticato con un bel leone funerario romano del primo secolo DC, sia il museo al primo piano dove si conservano alcuni arazzi preziosi, acquisiti all’epoca dello splendore della corte dei Da Correggio, e una rara madonna (con il bambino?) mutilata, in teracotta policroma.

Se si ha la fortuna, come è accaduto a noi, unici visitatori di un sabato pomeriggio, di conversare con il giovane custode, cortese, competente e discreto, si gusta ancora di più il materiale esposto. Purtroppo mancano le numerose opere del Correggio che dovevano ornare il palazzo durante il Rinascimento e che ora arricchisco i musei di mezzo mondo.

Alcune foto (correggio.pdf) a corredo di quanto ho scritto

Svelto come un pesce nello sciroppo

Anche nel 2005 sono stati assegnati i premi IGnobel, che non hanno nulla d’ignobile, ma sono ricerche curiose che prima fanno sorridere, poi pensare. Su “Kilpoldir?” ce ne siamo già occupati in passato (vedi:La regola dei 5 secondi ; Ignobel per la pace ) e ci ritorniamo anche quest’anno segnalando il premio per la chimica assegnato ad una ricerca dell’università del Minnesota e del Wisconsin per avere risolto un problema scientifico di lunga data: si nuota più velocemente nell’acqua o in una sbobba sciropposa?
Può sembrare una scemenza, ma la questione fu posta da Isacco Newton al tempo della stesura dei Principia Matematica e lasciata irrisolta, visto il disaccordo teorico inconciliabile fra lui e il suo amico Chistiaan Hyugens.
Insomma nuotare in un liquido più viscoso dell’acqua rallenta il nuotatore o gli permette migliori prestazioni? Finalmente, ora lo sappiamo: la ricerca, premiata con l’ignobel per la chimica, ci ha fornito una risposta incontrovertibile.

guaram

L’esperimento è stato condotto con il maggiore rigore scientifico, dispendio di mezzi e, soprattutto, una grande pazienza per ottenere il permesso di riempire (e poi svuotare nele fogne) una regolare piscina lunga 25 metri con una specie di sciroppo denso il doppio della acqua. Come addensante dell’acqua è stata usata della comune gomma di guar detta anche guaram che compare, ad esempio, fra gl’ingredienti delle salse industriali con la sigla E412 ed è ricavata da una leguminosa (Cyamopsis tetragonoloba).
Come cavie, si sono offerti 16 giovani nuotatori che hanno nuotato al massimo delle loro possibilità sia nell’acqua pura che in quella resa viscosa con il guaram.
E il risultato? Avevano torto sia Newton che il suo amico dissenziente. L’acqua densa non migliora né peggiora le prestazioni dei nuotatori, perché la maggiore viscosità rende più faticoso nuotare, ma contemporaneamente, rende proporzionalmente più efficaci le bracciate.
Chi l’avrebbe detto? Potenza del metodo sperimentale, verrebbe da dire, con quel residuo ottimismo che dobbiamo tenerci caro per poter campare anche noi agnostici, in questi tempi duri.
Mi resta un dubbio: meglio nuotare in mare o in piscina, per uno come me che se ne infischia delle prestazioni velocistiche e vuole solo sguazzare piacevolmente per stuzzicare l’appetito, prima di una grigliatina di pesce?
Sperimentalmente parlando, se le onde e il vento non sono eccessive, l’acqua è limpida, il vicino ristorante è silenzioso e fresco e pesce e vino bianco sono ancora più freschi, meglio il mare.