In proporzione

Della moltiplicazione dei pani e dei pesci era stato informato da bambino, anche se la vicenda gli aveva lasciato qualche dubbio, all’epoca, ma quando vide che la sua vecchia teiera, sulla quale aveva fermato lungamente lo sguardo soprappensiero, si era gonfiata, credette di avere le traveggole e cercò di convincersi che era sempre stata di quella dimensione. Ubriaco non era, dopo due sole tazze di te al latte e qualche frollino rigato. Neanche i più fantastici miracolatori del West si erano mai vantati di riuscire a trasformare il te in whisky, nonostante fossero identici da vedere in un bicchiere. Per quanto ne sapeva, al massimo si poteva far pagare per whisky il te bevuto dalle entraineuse nei night di terz’ordine, se il cliente che sganciava i dollari era un autentico credulone, possibilmente ubriaco di whisky vero. Un fatto era certo: era sobrio come un pozzo.

Così, a scanso di equivoci, lasciò la teiera sul tavolo, si accese la pipa e se ne andò a fare una passeggiata con il cane, contento come una pasqua del giretto fuori ordinanza, a metà del pomeriggio. Quando tornò il sole era già tramontato e la casa era rimasta sola e al buio. Non gli piaceva trovarla così addormentata al suo rientro; preferiva trovare una luce accesa che gli desse il benvenuto. Cambiò l’acqua nella ciotola del cane che era assetato, gli diede qualche bocconcino e una strapazzata affettuosa e decise che era ora di cena anche per lui. Non aveva bisogno di guardare la pendola per saperlo. Viveva da solo con il cane, persona gentile e dalle abitudini informali, e i suoi orari erano molto elastici: mangiava quando ne aveva voglia, ma apparecchiava per bene come se fosse a palazzo Braschi, diceva lui, anche se da qualche anno, vestiva in modo molto casual, qualcuno avrebbe potuto dire come un barbone.

Prima di stendere la tovaglia fu necessario sgomberare la tavola. Ripose il vaso ermetico dei biscotti, il bicchiere di cristallo tagliato con la marmellata, la zuccheriera d’argento, afferrò il bricco del latte e la tazza sporca, uno per mano, li lavò, li asciugò e li ripose nella credenza, come sempre. Aveva la fisima dell’ordine, che nella sua visione del mondo, richiedeva che i muri fossero liberi da quadri e le superfici orizzontali dei mobili completamente sgombre, in particolare il ripiano scanalato del lavello doveva sempre essere libero e asciutto, al termine delle incombenze di rigovernatura.

Quando tornò in camera da pranzo, la vide troneggiare sola in mezzo al tavolo. Non era mai stata così… imponente. Non c’è dubbio: era cresciuta. Non si era deformata, era semplicemente più grossa, quasi maestosa: una signora teiera. Per svuotarla e riporla dovette usare entrambe le mani: era anche pesante. Stranamente questo fatto lo riconfortò: aveva mantenuto la giusta proporzione. Nei giorni successivi non accadde nulla di strano, semplicemente decise che non aveva più voglia del te pomeridiano. La domenica successiva andò in piazza con il cane. Non era il tipo che si sarebbe vestito per la festa, anche se lo avesse saputo, ma si accorse che c’era un’animazione insolita: bandiere, ragazzi, il suono di una banda ancora lontana, invece dei soliti vecchi che la popolavano sempre, se il tempo non era troppo scoraggiante. Era festa, insomma, non la solita domenica feriale. Ci mise poco a rendersi conto che doveva essere il primo Maggio. Era arrivato, ancora una volta, così all’improvviso. Si guardò in giro: sembravano tutti forestieri. A parte il suo cagnolino, non c’era neanche un cristiano conosciuto.
Guardò in alto, sopra le rondini e si mise a fissare la cupola che spuntava dietro i palazzi. Mentre la osservava, dapprima distrattamente poi con sempre maggior concentrazione, gli apparve più monumentale e più splendente del solito, una meraviglia degna di Brunelleschi. Anche i vetri della lucerna sembravano appena lustrati, luccicavano al sole, ci si sarebbe potuti specchiare. Guardò meglio e vi scorse la sua faccia: la solita faccia di tutti i giorni, ma la gente, invece, sembrava non accorgersi di tanto splendore. Guardavano a terra, apparivano lontani, piccoli e insignificanti. Restavano immobili sul pavimento o si muovevano a scatti, senza senso, come scarafaggi notturni, spaventati dall’accensione improvvisa di una luce. Per non calpestarli, rimase immobile, mentre la cupola continuava a crescere sotto il suo sguardo. Ma le proporzioni restavano corrette e altrettanto conforme sarebbe stato il peso, se avesse potuto misurarlo. Ne era certo.

Bianco&nero

19 novembre 2004

via dei Chiari Bologna via dei Chiari Bologna

  • T i piace il bianco&nero?
  • A me piacciono molto le ombre, i riflessi …
  • …anche a me, moltissimo.
  • Quindi non stai proponendomi un mondo senza sfumature, oltreché senza colori? Un mondo di buoni senza macchia e di cattivi senza pietà.
  • Ho capito dove mi vuoi portare. Non avevo in mente niente del genere. Intendevo parlare di valori estetici non etici, se proprio vogliamo strafare, ma io prferirei volare più basso, rasoterra, diciamo.
  • Allora, parli di disegni a matita, a carboncino, d’incisioni…
  • …e di foto.
  • E di foto, naturalmente.
  • Soprattutto di foto. Non so se l’argomento t’interessi, ma è in corso una rivoluzione in questo settore che mi ha coinvolto moltissimo.
  • Parli delle macchinette digitali?
  • Macchinette, dici? Mi sembra di capire che tu, invece, sia rimasto piuttosto estraneo all’argomento, che non te ne sei interessato, insomma.
  • Infatti non ne so niente. La sola cosa che mi ha colpito è lo spazio crescente, ormai invadente, che la pubblicità delle fotocamere digitali occupa sugli opuscoli che mi ritrovo dentro alla buchetta della posta. Io guardo solo le figurine, come un analfabeta, ma così a spanne, mi sembra che stia diventando un mercato da grandi numeri.
  • Sì, anche l’aspetto brutalmente quantitavo è sorprendente, a prima vista, ma andando più a fondo, si scopre che si tratta di gioiellini che si evolvono alla velocità dei computer: un fenomeno stupefacente che merita tutta l’attenzione che comincia a suscitare anche nel grande pubblico: il più occasionale, distratto e incompetente.
  • Addirittura, non ne avevo idea, pensavo si trattasse di giocattolini, dall’aspetto molto attraente, a volte. Non sembrano neppure macchine fotografiche; ce ne sono di quelle che assomigliano ad un portasigarette d’argento, anni ’30. Invece sono delle belve tecnologiche mascherate, mi dici. Che cosa hanno in comune con i computer?
  • Tutto, fuorché l’obiettivo. A dispetto delle dimensioni miniaturizzate, sono dei veri computer, ma specializzati nel catturare e memorizzare immagini, anziché informazioni testuali o sonore. Rispetto ad un PC sono meno versatili, naturalmente, ma il loro compito lo svolgono in modo brillante.
  • Allora, tutto accade nel misterioso silenzio degli imperscrutabile meandri dei microchip, nascosti sotto la pelle d’argento. E la magia del blow up in camera oscura, dov’è finita? Non che io m’intendessi neppure di quella.
  • Be’ io sì, invece, la fotografia tradizionale è stata la mia passione per vent’anni e non ti sto a raccontare quante notti ho passato in camera oscura nella penombra della luce giallo-verde, annusando il profumo dell’acido acetico che sovrastava quello dei bagni di sviluppo e di fissaggio, mentre le immagini affioravano lentamente in superficie, abbandonando con riluttanza il loro stato latente. Un’emozione autentica che si ripeteva ogni volta.
  • Ti sarà costato caro questa strappo con la tua storia giovanile di cui si avverte ancora la nostalgia, se interpreto bene il tono delle tue parole; sembra che tu parli di un amore della tua gioventù finito per sempre.
  • E’ così, ma i nuovi strumenti sono così potenti, duttili, ricchi di possibilità quasi insondabili che, obiettivamente, non possono lasciare sopravvivere rimpianti.
  • Perché, scattare una foto digitale è così diverso dal solito?
  • No, all’apparenza non è cambiato quasi nulla. Ci sono sofisticatissimi sistemi di messa a fuoco e di esposizione automatica che ne permettono un uso del tutto inconsapevole a chi si affida totalmente a loro, concentrandosi solo sulla scelta dell’inquadratura.
  • Andrebbero bene per me, ma gente come te si adatta ad una condizione così elementare e succube delle scelte dello strumento?.
  • Molto volentieri, perlopiù, perché il risultato è quasi sempre molto buono, ma restano anche tutte le possibilità di agire manualmente. Si può anche sbagliare in pieno, se ci si sforza abbastanza.
  • Capisco: la libertà d’errore è salva, questo mi tranquillizza. Mi fanno paura i sistemi automatici infallibili.
  • Non c’è pericolo, stai tranquillo, anche gli automatismi più sofisticati s’ingannano in condizioni critiche, ma la parte più stupefacente e divertente, a mio parere, resta, come un tempo, quella successiva.
  • Non avevo capito nulla, allora. Mi capita spesso; pensavo che la camera oscura dei tuoi ricordi nostalgici fosse sparita. Che cosa si usa per estrarre e stampare le immagine nascoste nella memoria della fotocamera, a proposito? Una normale stampante collegata con un cavo alla macchinetta… scusa volevo dire al gioiellino?
  • Sì, per chi vuole affidarsi mani e piedi agli automatismi semplificatori, ci sono piccole stampanti a colori che ti sparano fuori delle belle cartoline lucide senza richiedere nessuna abilità e non richiedono neppure l’uso di un computer. Ma così ci si perde il meglio.
  • Chi invece vuole spassarsela al massimo, come deve procedere? Conoscendoti, tu devi essere uno di quei sibariti.
  • Infatti. Lo spasso maggiore consiste nella elaborazione delle immagini digitali, in tempi successivi alla ripresa.
  • Ci vuole un computer per farlo, immagino.
  • Sì, meglio se è abbastanza veloce e capiente. Corredato da un software ad hoc è il computer la nuova camera oscura, ma mille volte più versatile…
  • … e più facile, immagino.
  • Questo no, a meno che non ci si accontenti di poche correzioni semiautomatiche. Padroneggiare a fondo un programma come Photoshop, l’applicazione regina in questo campo, richiede molto tempo, studio, esperienza e pazienza. Poi, come sempre, conta l’abilità personale. Non è come suonare i violino, ma insomma….
  • Caro il mio violinista, adesso capisco dove passi le tue serate. Una volta mi piacerebbe vederti “suonare” la tua camera oscura digitale, me ne hai fatto venire voglia.
  • Quando vuoi, saremo confortevolmente seduti in poltroncina con le luci accese e un buon disco come sottofondo…
  • Un DVD dell’ultima generazione, immagino, di meno non potresti accettare.
  • No, anche un vinile vecchio stile, se preferisci. Quello che da ragazzi chiamavamo trentatré giri. Io non me ne intendo abbastanza, ma gl’intenditori sostengono…
  • Lasciamo stare, se non ti dispiace. Per oggi ho immagazzinato abbastanza notizie da scordare prontamente. Non vorrei sovraccaricare la mia amnesia.

Le immagini, drasticamente compresse e rimpicciolite, sono la rielaborazione con Photoshop di una mia foto a colori di via dei Chiari, a Bologna

Margherita

Nella stagione di arance e clementine
quando in giardino il nespolo è fiorito
è nata una bella bambina 
piccolina così, ma già Margherita.
Mentre la nebbia svaniva nel sole
sono arrivate da terre lontane
tutte e dodici le fate buone 
trasportate da un vento burlone 
che al loro passare suonava campane 
cavava cappelli e arruffava mantelli.
Per augurarle buona fortuna, 
le soffiarono un bacio sulla manina
troppo delicata per essere baciata.
“Bella e buona sarai, brava e molto fortunata
questo vogliamo che sia il tuo destino.
Ricordalo bene, non lo scordare
siamo noi le dodici fate che filano la sorte
di tutta la vita, fino alla morte.”
Nel salutarla con inchini giocosi
svanirono nell’aria ad una ad una 
lasciandosi dietro soltanto i sorrisi.

28 novembre 2004

Il bel disegno fatto per l’occasione è di Emilia.

Tosse stizzosa? Sciroppati del cacao!

Una buona notizia per i patiti della cioccolata: oltre alle squisitezze ben note, contiene un ingrediente che si è rivelato un efficace calmante per la tosse, la teobromina.
Secondo una recente ricerca pubblicata sul FASEB Journal, un gruppo di studiosi ha scoperto che la teobromina, notoriamente presente nel cacao, sarebbe il 30% più efficace della codeina, come sedativo della tosse. Non solo, ma a differenza di quest’ultima, non provocherebbe effetti indesiderati, cosicché si potranno preparare sciroppi con dosaggi più alti e, quindi, più efficaci.
Insomma, quando disporremo di sciroppi alla teobromina, dormiremmo come angioletti anche quando la tosse perversa congiurerebbe per tenerci svegli, ed anche quelli che guidano o svolgono lavori che richiedono la massima prontezza potranno combattere la tosse, senza preoccuparsi della sonnolenza indotta dalla codeina.
Avevano ragione i Maya a considerare il cacao un cibo prezioso da regalare in occasioni speciali, da consumare durante riti religiosi e, perfino, da usare come merce di scambio per eccellenza, al posto del denaro. Quattro semi per una zucca; dieci per un coniglio; cento per uno schiavo.

Di recente sono state scoperte anche le virtù della cioccolata amara che fa bene al cuore perché aumenta il livello di sostanze antiossidanti. Insomma, cioccoladores de todo el mundo, dateci dentro allegramente con il vostro cibo preferito che chissà quali altri pregi nasconde.

A sinistra un frutto di cacao spaccato che mostra i semi al suo interno. A destra una tabella di valori che usa il seme di cacao come unità di misura.

In punto

Da quando, ancora con le braghe corte, aveva saputo che l’orologio di piazza sulla robusta torre centrale del castello era opera di un suo bisnonno, il più celebre orologiaio del paese, nonchè appassionato cacciatore, abituato a chiudere bottega quando arrivava l’ora di staccare la doppietta dal chiodo, aveva preso l’abitudine di tenerlo d’occhio. Giusto un’occhiatina per accertarsi che funzionasse bene, senza la pretesa di una precisione cronometrica.
Sapeva bene che della vecchia macchina del tempo a ingranaggi, azionata da pesi madornali, che scendevano verticalmente al centro della torre, non era rimasto più nulla, tuttavia le grosse lancette di ferro battuto non erano mai state sostituite: erano sempre quelle del nonno, anzi, il prosaico motore elettrico che le spingeva lungo la loro orbita era stato scelto proprio di misura, per sopportarne il peso considerevole.

Quando alla stagione delle castagne, passando per la piazza dopo il tramonto, gli parve di vedere la lancetta dei minuti segnare un’ottimistico sei e tre quarti, mentre il suo cipollone da tasca segnava ormai le sette e il suo stomaco, attendibile come un cronometro svizzero, confermava oltre ogni dubbio che era ormai ora di cena, ebbe la tentazione di fermarsi per guardare meglio, ma la nebbia era così fitta da oscurare anche la facciata del duomo in fondo alla piazza e il suo tabarro era già fin troppo pesante e freddo per l’umidità accumulata. A casa la polenta doveva già fumare sul tagliere e il coniglio alla cacciatora era sicuramente pronto, in caldo sulla stufa, per farle compagnia. Si rincagnò il cappello e tirò dritto.

La mattina seguente doveva partire presto per un viaggio lungo. La nebbia era ancora più fitta, ma la sua bicicletta da bersagliere sapeva la strada meglio di un vecchio cavallo. Quando incontrò la prima frasca, il sole era già arrivato alla cima degli olmi e stava facendo del suo meglio per spuntarla sulla nebbia, ma non ci era ancora riuscito. Meglio fermarsi a bere un mezzo litro al caldo e lasciargli il tempo di fare un po’ di chiaro, prima di ricominciare a pedalare. In alto al centro, proprio sopra il bancone dell’oste, c’era un grosso orologio tondo, apparentemente fermo da un pezzo. Non una pendola, ma un grossolano sveglione da muro con il quadrante ingiallito dalle cacche di mosca e un dito di polvere unta dovunque fosse in grado di depositarsi.

“Va bene quell’orolgio?”, domandò all’oste prima di sedersi sulla panca vicino alla stufa accesa.
“Altroché, segna sempre che è ora di bere. Cosa vi porto?”
Quando, con il toscano acceso in bocca, tentò di rimettere in carreggiata la bicicletta, si accorse che la sosta all’osteria le aveva fatto male: non era più capace di andare dritta. Un inesperto avrebbe potuto cercare una relazione fra i tre mezzi litri di lambrusco e le spettacolari oscillazioni della partenza, ma lui che inesperto non era, pedalò con maggiore determinazione, ben sapendo che se fosse sopravvissuto in sella ai primi metri, bici e strada avrebbero finito con il trovare un autonomo equilibrio, sufficiente per avanzare se non proprio per andare dritto, poi l’aria fresca avrebbe soffiato via anche la nebbia che aveva in testa. E così fu.

Verso mezzogiorno, con il sole bello alto e ormai vittorioso, quando gli austeri filari di pioppi cipressini, dominanti dagli alti contrargini, rivelavano la presenza del fiume, ancora nascosto alla vista, trovò un’osteria adatta per passarvi la notte, certo di essere arrivato vicino al grande fiume dove crescevano anche i salici flessuosi, potati a sgamollo, che costituivano la meta del suo viaggio.
Cercava un boschetto in golena di piante giovani da comprare per la sua piccola fabbrica di truciolo. In un paio di giorni contava d’ispezionare la zona e concludere l’affare. Era analfabeta, ma i conti li sapeva fare a memoria, senza bisogno di carta e lapis, per non parlare di altri aggeggi ancora da inventare. Girando senza parere fra i sentieri del bosco era in grado di valutare, a colpo d’occhio, quanto legno avrebbe potuto ricavarne per i suoi pagliari che, a casa, avrebbero provveduto a segare in pezzi i lunghi rami, grossi come un braccio, a scortecciarli e a ricavarci tutte le paglie che si potevano ottenere, scartando solo un mazzuolo, troppo sottile per essere lavorato, buono solo per il camino o per mescolare la polenta nel paiuolo.

Quando scartò sul tavolaccio la sua bella fetta di gorgonzola, portata da casa per ogni emergenza, in attesa che l’oste gli portasse il pane e il primo mezzo di rosso, la pendola attaccò a suonare mezzogiorno. Finalmente un orologio in punto, che andava d’accordo con quello del suo stomaco, il solo di cui si fidava ciecamente. In un lampo gli tornò in mente l’orologio di piazza, chissà se stava battendo anche lui i dodici rintocchi?

Di fronte gli stava seduto uno che doveva già aver finito di mangiare. Fumava la pipa e ogni tanto allungava la mano per una carezza rustica al suo cane, accovacciato sotto il tavolo: nessuno dei due parlava, ma avevano l’aria d’intendersi bene ugualmente.
“Ce n’è, quest’anno”
“Di trifola ce n’è sempre, se uno ha un buon cane e sa dove dirgli di cercarla”
“Allora ne avrete trovata anche oggi, me ne vendereste una patata o due?”
“Due piccoline, va bene? E’ trifola nera, ve la dò per dieci scudi” e mentre parlava, il trifolaro si alzò trattenendo a terra con una occhiata il cane che, escluso dalla trattativa, lo guardava con aria interrogativa. Raggiunto il tavolaccio, vi posò due tartufi poco più grossi di una noce che furono prontamente intascati, terra compresa. Il pensiero che i suoi vestiti e l’intera sua persona non si sarebbero mai più liberati da quella puzza pregiata non lo sfiorò neppure. A lui piaceva quell’odore, perfino più di quello del toscano e sua moglie aveva un bel da arieggiare al sole le sue giacche, non c’era niente da fare.
Quando, alla fine della settimana, la sua bicicletta lo riportò a casa, era già scuro da un pezzo, ormai l’ora di cena. Allungando un po’ la strada passò dalla piazza; l’orolgio segnava le sette meno un quarto: bel caso. La stessa ora, precisa. Che fosse fermo?
La domenica mattina, con il tabarro della festa, a due dritti, e un cappello quasi nuovo andò in piazza, dove si erano già formati i soliti piccoli crocchi dei giorni festivi. Alzando gli occhi verso la torre, gli passò ogni dubbio: l’orologio era proprio fermo.
Domandò in giro: chi disse che ci aveva nidificato una poiana, chi spiegò che c’era stato un cortocircuito dopo un temporale che aveva bruciato irrimediabilmente il motore elettrico, un paio di filosofi a piede libero sostennero che anche gli orologi invecchiano, come tutti i cristiani, e, alla fine, si fermano, ma tutti concordavano nel dire che sarebbe stato sostituito con uno più moderno, nuovo di zecca, che era già stato ordinato dal sindaco in persona nella foresta nera, dovunque si trovasse ‘sto bosco.
“E le sfere? Cambiano anche quelle?”
“No, cosa c’entra, le lancette vanno sempre bene; poi belle così non le sanno più fare”
Il capolavoro del nonno sarebbe stato salvo ancora per un pezzo, allora; cambiassero pure la macchina nascosta dietro la facciata della torre; anche se era forestiera, chi la vedeva quella?
Le due poderose lancette di ferro battuto, invece, non sarebbero durate in eterno, ma, di sicuro, avrebbe fatto in tempo a morire prima di loro, senza vederle arrugginire fra i rottami.

Kannibalescu!

  • Kannibalescu!
  • Ti sei messo a studiare l’afrorumeno?
  • Avevo provato con il cinese, ma mi hanno detto che non ha alfabeto e tornare all’analfabetismo mi è sembrato poco dignitoso.
  • Giusto! regredire è un po’ morire. O no?
  • Non so, io conoscevo un detto un po’ diverso, ma tanto l’ho dimenticato
  • E’ il bello della memoria, che si dimentica da sola, mentre per esempio la lavagna bisogna cancellarla tutte le volte
  • Ci vorrebbe una lavagna automatica, che si cancellasse da sola, quando è ora
  • Chissà se i cinesi l’hanno già inventata? costerebbe poco
  • Di sicuro. Ne avranno fatto dei milioni di pezzi. Dove hai detto che si compra?
  • Se fosse irlandese ti direi “dietro l’angolo”, ma così, senza alfabeto, non so dove le mettano
  • Esportano, esportano tutto. Dicono che in Cina non ci sia rimasto più niente.
  • Bisognerebbe provare da un importatore, allora
  • Io conosco solo un import-export, ma non ho mai capito cosa faccia. Sta sempre seduto dietro al banco come un ragno che aspetti una mosca
  • Si vede che è un grossista: quelli non si vede mai quando comprano e vendono
  • E’ vero, ma qualcosa devono pur fare, perchè tutti dicono che è colpa dei grossisti, quando i prezzi aumentano
  • Chissà se è vero? Se ne sentono tante, ma ci vogliono le prove
  • Poi arrivano i periti che dicono che, invece, non provano un bel niente e ci vogliono sempre altre prove
  • Fanno per tirarla per le lunghe, altrimenti non sanno cosa fare al mondo
  • Se te la passassi male saresti disposto a fare il perito?
  • Preferirei fare il consulente, ma non a tempo pieno
  • E’ sempre meglio lasciarne un po’ di vuoto. Non si sa mai
  • E quello che penso anche io, altrimenti, quando è ora di riempire il tempo che passa, come si farebbe
  • Sarebbe un bel imbarazzo perché non conosco nessuno capace di svuotare il tempo, tutti si dannano per riempirlo, ma poi alla fine…
  • S’è persa la coscienza civile, sai cosa ti dico. Come se il tempo fosse infinito…
  • O tempora, o mores!

Venature della sorte

Aveva cominciato da bambino, incantandosi a contare gli anelli delle ceppaie rimaste nel vecchio bosco vicino a casa, dopo le periodiche operazioni di sfoltimento. Con l’aiuto del nonno, aveva imparato a distinguere le vicende della vita dei grossi tronchi ormai giunti alla loro fine. Non solo ne scrogeva sempre più chiaramente la sorte collettiva: gli anni di siccità e quelli grassi, ma anche le malattie che avevano colpito alcuni di loro nel corso della loro parabola vegetativa, lasciando indenni altri confratelli poco distanti. Questo interesse affettuoso per i suoi alberi si era trasformato nella persuasione che ciascuno portasse chiaramente scritto non solo il diario della propria vita, ma una mappa del destino ben chiara e leggibile, stampata nelle venature, che li distinguevano individualmente l’uno dall’altro.
Quasi inevitabile fu lo sviluppo di questa sua attitudine alla interpretazione delle linee del destino nascoste nelle venature dei tavoli. Il suo scrittoio, un vecchio tavolone massiccio di famiglia, passato di generazione in generazione, rivelava un passato ricco di vicende intense e tumultuose, accumulate nel corso di molti decenni, come tavolone di lavoro della piccola pellicceria di famiglia, come tavolaccioo da taverna durante la guerra, quando l’intera casa era stata requisita dai soldati occupanti che avevano bruciato nel camino mezza casa, come tavolo di pranzo nella grande cucina a pianterreno, durante i miseri anni del dopoguerra e, infine, come solido scrittoio di suo padre e poi suo. Nella sue vene robuste scorgeva ben chiaro, ad di sotto degli sfregi, dei tagli e delle bruciature una poderosa caparbietà di sopravvivenza, un destino da araba fenice, che pareva quasi trasmettersi a chi lo usava. Pensava che se suo padre non si fosse affrettato a passarglielo, non appena la sua età richiedeva un tavolo di studio, sarebbe stato ancora vivo.
Con il passare degli anni, aveva imparato a leggere anche la venatura delle pipe. Di alcune, improvvidamente ricavate da ciocchi disgraziati, aveva facilmente previsto la sgradevole natura o la precoce vocazione al suicidio: si nascondevano in tasche dismesse fino alla sparizione finale o si buttvano dal terrazzo su uno dei pochi sassi ornamentali del giardino, spezzandosi il collo irrimediabilmente o, addirittura, si catapultavano direttamente dalla tasca in un tombino fognario, azzeccando un’improbabile fessura, apparentemente incapace d’inghiottirle.

Nella meravigliosa vena ascendente di una pipa fiammata, conica, di media capienza aveva, invece, scorto un destino felice, una predisposizione contagiosa alla felicità, forse all’immortalità. Era ben raro che non fosse presente fra le quattro o cinque pipe che solitamente popolavano le sue tasche e non se ne sarebbe separato per nessuna ragione. Quando la sua mano, pescando distrattamente in una delle tasche, la estraeva per caricarla e fumarla, era certo che si sarebbe goduto una bella pipata, senza brutti pensieri.
Da vecchio aveva quasi dovuto smettere, per le pressioni di medici e famigliari sobbillati da paranoiche campagne di dissuasione al fumo, ma ogni tanto una buona fumata nella pipa del destino continuava a concedersela, incurante di rimbrotti e lamentele, finché la rottura di un femore non lo costrinse in ospedale.
Secondo il chirurgo, doveva trattarsi di una degenza breve e senza problemi e tale sarebbe stata se un’inflessibile caposala, animata dalle peggiori intenzioni di far bene, non avesse confiscato la sua pipa dal cassetto del tavolino, dove il nipote premuroso che lo assisteva l’aveva deposta, ben consapevole dell’importanza vitale nascosta nelle sue venature.
Qunando, al risveglio precoce dall’anestesia, nel tentativo di ricostruire la mappa della nuova situazione e trovare un segno della sorte che lo attendeva, volse il suo sguardo dalle pareti bianche ed anonime della stanza al tavolino, per leggerne le venature, dovette constatare che non ne aveva. Non era altro che una triste parodia di tavolo, ricoperto da un laminato mortalmente amorfo. Con impazienza, si girò allora per cercare la sua pipa nel cassetto, staccando tubi e fili che lo impastoiavano, per trovare conforto nella sua venatura rassicurante. Quando lo vide asetticamente vuoto, non ebbe bisogno di altri segni; si adagiò sulla schiena e chiuse gli occhi malinconicamente, consapevole che di lui neppure una ceppaia sarebbe rimasta, per raccontare la sua storia ad un bambino curioso.

Il pensatore

  • “Pensare non è sapere” l’hai mai sentita questa sentenza?
  • Io no, e a te chi l’ha appiccicata? Cosa vorrebbe dire?
  • L’ho sentita al volo mentre stavo uscendo da un caffè. Stavano giocando a tre sette e uno dei quattro non si decideva mai giocare la sua carta, quando toccava a lui.
  • E tutti gli altri friggevano.
  • Soprattutto il compagno del pensatore…
  • …che magari giocava anche male, dopo averci pensato un’ora.
  • Credo che fosse proprio questa la storia. Il pensatore doveva essere uno di quelli che mungono tutte le carte, una alla volta, prima di tirare quella sbagliata.
  • Be’ allora era stato fin troppo gentile; e com’è andata a finire? gliene ha poi dette quattro, come si meritava?
  • Avevo già pagato e stavo uscendo, per questo mi si è appiccicata la frase: è l’ultima che ho sentito: “Pensare, non è sapere”
  • E adesso l’hai attaccata a me. Bisogna che trovi qulcuno a cui darla via.
  • Guarda quel tipo tutto infagottato davanti alla fermata del bus; sta consultando da cinque minuti la tabella degli orari di tutti gli autobus, senza smettere. Prova con lui.
  • Un altro pensatore, eh? Vado subito. Era da quando portavamo le braghe corte che non giocavo più a “dalla via”
  • Vai, prima che salti sull’autobus sbagliato.

Kikazzè?

Quali sono gli elementi che ci aiutano ad associare un nome ad un volto? La faccenda è tutt’altro che chiara e tantomeno scontata, ma qualche passo avanti pare sia stato compiuto dalla Dr Jenny Gimpel dell’University College of London che sta conducendo una ricerca sulle aree del cervello che appaionio coivolte nel complicato processo, che fallisce completamente in presenza di alcune malattie o lesioni che impediscono a chi ne soffre di riconoscere gli amici o, addirittura, i propri figli.

Servendosi della scansione magnetica durante un esperimento di riconoscimento a cui si erano sottoposti volontari sani, la ricerca ha dimostrato che il processo si svolge in tre stadi che coinvolgono tre distinte aree del cervello: la prima analizza le caratteristiche fisiche di un volto, la seconda decide se si tratta di un volto noto oppure no, la terza procede alla ricerca delle informazioni associate a quel volto, attribuendole, ad esempio, il nome.

L’esperimento è stato condotto anche servendosi d’immagini di Margaret Tatcher trasformate gradualmente, per mezzo di un programma di morphing, in quelle di Marilin Monroe. In modo inatteso, il riconoscimento del volto di Marilyn (lo stadio finale della trasformazione) è avvenuto più rapidamente di quanto i cambiamenti delle specifiche caratteristiche fisiche lasciassero pensare.
Il processo a tre stadi (lascia che ti guardi; ti conosco o no; chi sei, come ti chiami ecc.) potrebbe spiegare perché la gente come me, che per mestiere ha incontrato migliaia di facce, tenendo corsi e conferenze in giro per l’Italia, riconosce un volto come vagamente noto, ma non è minimamente in grado di associarlo alle circostanze dell’incontro o, ancor meno, ad un nome che non ha mai saputo.
La ricerca nulla aggiunge e nulla toglie alla inveterata categorizzazione lombrosiana-da-sbarco che accomuna tutti noi mortali nel riconoscimento inoppugnabile delle facce di bronzo, di quelle da assassino e nella vasta e variopinta categoria delle facce da culo.

I colori del bianco

Per la prima volta, con la mostra “I colori del bianco. Mille anni di colore nella scultura antica”, ospitata nella Sala Polifunzionale dei Musei Vaticani sino al 31 gennaio 2005 si è tentata una ricostruzione tridimensionale in scala 1/1 di celeberrime statue antiche di cui, da tempo, si sapeva che erano colorate, a differenza di come appaiono a noi oggi, visitando i musei che le accolgono. Il risultato della ricostruzione è impressionante e supera di gran lunga l’immaginazione. Altroché pallore marmoreo, quello che ci si presenta sono degli elegantissimi pupi siciliani, pitturati senza risparmio per colpire la fantasia di un pubblico avido di sensazioni forti. La parentela con la celeberrima arte policroma egizia o con quella cretese risulta evidente più che mai: si tratta sempre di arte mediterranea, insomma, quella di popoli che vivevano sulle rive dello stesso bacino chiuso in cui la circolazione d’idee era intensissima e ci si “copiava” vicendevolmente senza alcun pudore.

arcere

Il risultato può non piacere perché siamo abituati a pensare all’arte classica come pregevolmente divergente da quella barbarica, puerilmente colorata, ma dovremo adattarci a cancellare i solchi mentali derivati dai nostri studi liceali, improntati ad una visione falsa e piuttosto spocchiosa della classicità che squadre di fisici e chimici hanno fatto a pezzi definitivamente.
La variopinta schiera di bovari sikh, provenienti dal Punjab, che si sono installati a Novellara (MO) e dintorni, e la domenica percorrono strade e piazze con i loro sgargianti costumi, dovrebbero aiutarci ad acquisire una maggiore apertura nei confronti di un mondo in cui il bianco e nero è un’elegante astrazione di una realtà inventata, con buona pace di J.J.Winkelmann (1717-1768) e delle raffinate professorese di storia dell’arte che ci hanno allevato ad una classicità mai esistita.

Mi resta nel gozzo una domanda:”… e se Canova avesse visitato la mostra…?”

Per chi volesse saperne di più, Paolo Liverani, il curatore della mostra, ha scritto una interessante articolo apparso su “Il sole 24 ore” .

Ecco alcuni esempi di statue come apparivano ai loro tempi. Cliccando sulla piccola figura ne otterrai un ingrandimento. Si tratta di un leone del VI secolo a.C.; della “Kore del peplo” – Atene, Acropoli 679 a.C. e dell’Augusto di Prima Porta – Roma 12 a.C. circa.

Leone
Kore
Augusto di Prima Porta

Cuzzano

Nel lungo intervallo di tempo trascorso senza nuovi blogspot mi sono dedicato a riordinare le oltre diecimila e trecento foto digitali ospitate sul disco del mio computer principale. Non ho ancora finito, ma procedo con qualche soddisfazione, adoperando Adobe Photoshop Album che offre strumenti razionali per muoversi nel mare magnum delle fotografie che si sono sedimentate nel tempo, creando percorsi di ricerca praticabili facilmente.
Lo strumento offre anche diverse possibilità interessanti per creare delle raccolte fotografiche in forma di album digitale (composte da pagine html) o di presentazioni in pdf: il formato fruibile con il Reader gratuito, offerto dalla Adobe già da molti anni. L’attuale versione ( Adobe Reader 7 ) è notevolmente migliorata e vale la pena di essere scaricata per sostituire eventuali versioni più datate.

Oggi vorrei presentare una prima raccolta di foto che sfrutta proprio Adobe Reader per mostrarle a piena pagina. Sono state scattate sabato scorso nell’Appennino modenese e bolognese, nell’intervallo fra le due cospicue nevicate di febbraio, mentre anche le stradine di montagna erano praticabili.
Come sempre, il sabato siamo andati a mangiare in una trattoria fuori porta, che ci serve come pretesto per un giretto lungo strade poco battute o deserte, non troppo lontane da casa.
Il titolo della presentazione: “Cuzzano”, accomuna immagini “di stagione” catturate fra le valli del Panaro e quelle del Reno, toccando il sito dove un tempo sorgeva il castello dei Da Cuzzano.

Clicca sulla foto o sul titolo qui sotto per scaricare la presentazione sul tuo disco rigido e vederla poi off-line, con Adobe Reader. In alternativa, potrai vederla anche on-line, senza scaricarla, all’interno di una finestra del tuo browser.
Ti ricordo che in Adobe Reader puoi accedere alla vista a pieno schermo, altamente consigliabile, oltre che dal menu, anche con la scorciatoia da tastiera Ctrl-L.

Accedi ora alla presentazione “Cuzzano