Belli, alti e ricchi

La dama con l'ermellinoNei vecchi film di Totò le segretarie erano, immancabilmente, delle biondone prosperose e sceme in omaggio al criterio incontestato che la virtù per eccellenza di questo tipo di personale dovesse essere la bellezza, la disponibilità era sottaciuta, ma implicita.

Un recente articolo apparso in rete su careerbuilder sintetizza alcuni studi americani ed inglesi che parrebbero dimostrare che un bell’aspetto, sia femminile sia maschile, si traduce anche in stipendi migliori. Secondo un’inchiesta inglese, condotta su 11.000 treantratreenni, i bruttini guadagnerebbero circa il 15% in meno del loro colleghi di bell’aspetto, a mezza strada i normali. Si badi che la differenza vale sia per le donne che per gli uomini con una maggiore accentuazione per questi ultimi.
Studi equivalenti italiani non ne conosco, ma tutti noi abbiamo sperimentato di persona come le belle e i belli fossero avvantaggiati a scuola con voti migliori durante l’anno e risultati, a volte clamorosi, durante gli esami di maturità, quando molto si gioca in appena mezz’ora e la presenza (anche di spirito) trova uno spazio molto maggiore che nella quotidianità delle normali ore di lezione.

Alla luce di questi studi si potrebbe guardare con un’ottica diversa anche al ricorso crescente alla chirurgia estetica: non solo un modo di sentirsi meglio al mattino in bagno, davanti allo specchio, e la notte in discoteca, ma un autentico investimento per la carriera.

Il signor Silvio Berlusconi, con i suoi lifting facciali e trapianti di capelli, pare crederci molto.

La simpatia continua a restare una qualità preziosa e forse altrettanto apprezzata, ma non aspettiamoci studi statistici che ne dimostrini il valore monetizzabile, né un bisturi che possa “raddrizzare” un antipatico.

Sulle solide qualità, che dovrebbero contare di più nella vita e sul lavoro, nulla ci dicono le statistiche e ciascuno di noi continua a poter pensare che pesino molto o poco secondo le inclinazioni personali e le esperienze vissute.

La fortuna domina, come sempre, prima e dopo che Machiavelli ce lo mostrasse con tanta efficacia.

Kiappatutto

Inspiegabilmente, si rifiutava di prendere la scatola per insaccarla nella sua capace sporta per la spesa. Aveva proprio l’aria di un rifiuto, non di una banale distrazione o di un ritardo nella risposta. Kiappatutto, glielo aveva affibbiato lei quel soprannome, le scodinzolava dintorno con l’aria più innocente, guardandola sorridente, come al solito, mentre la seguiva fra gli scaffali del supermercato, il solito supermercato dove andava a rifornirsi settimanalmente dopo la strigliatina rilassante dal “parrucchiere”.

Per tutto il tempo in cui i robot fitness l’avevano lavata, massaggiata, pettinata, ritoccato il colore dei capelli e dell’abbronzatura invernale se ne era rimasto tranquillo, nello stato “buono-buono” con le iridi lampeggianti di azzurro spento, ad indicare la sua condizione di stand-by e, al suo “andiamo, kiappatutto” aveva ripreso a seguirla con la solita aria scodinzolante: docile e contento come sempre.

Cosa gli saltava in mente, adesso? “Apri la sporta, ciccio”. OK, funzionava. Luisa guardò dentro la sporta per controllare se fosse già piena. Non lo era. “Prendi anche questo, allora” Per tutta risposta, Kiappatutto chiuse precipitosamente la sporta. “Per favore, metti questo nella sporta”, senza dire né a né ba, il robot si girò per voltarle le spalle, allontanando il suo decodificatore di codici dalla scatola che gli veniva porta.
“Ma che bel tipo che sei! Ha visto anche lei, fa i capricci” disse Luisa, rivolgendosi ad una signora che si era fermata a guardare la scena, seguita da un robot portatore primitivo, dall’aria un po’ stolida, fornito di ganci esterni a raggera per appendervi i sacchetti.

“Ci vuole pazienza, signora, con questi qui dell’ultima generazione. Il mio è un po’ tonto, poverino, ma ci sono affezionata e non mi ha mai piantato in asso. Non riesco a decidermi di cambiarlo.”

“La capisco; quando mi hanno regalato Kiappatutto per la mia festa e hanno portato via quello vecchio, mi piangeva il cuore. Mi hanno detto che lo portavano da una vecchia signora sola a cui era morto il suo e mi hanno garantito che lo avrebbe trattato bene. Se è vero, è andato a stare meglio che in casa nostra: abbiamo tre figli che mangiano come cavallette e farei meglio a farmi portare la roba a casa con il furgone del sevizio “Lasciami-fare”. Ma sono abituata così: mi piace scegliere personalmente e approfitto anche dell’occasione per farmi coccolare dai robot massaggiatori: sono così premurosi e delicati.”

“Ha ragione. Noi abbiamo provato per un mese a lasciare tutto in mano al dispensiere. Non le dico… ci toccava mangiare quello che piaceva a lui. Perché poi, diciamocelo, non è altro che un frigo automatico programmato da chissà chi. Il nostro è cinese, costa meno, ma cosa vuole che ne capisca di quello che serve in casa nostra. Ha il programma “Europa” naturalmente, ma cosa vuole, certe abitudini non gliele leva nessuno. Guai se rimaneva senza germogli di soia, per dirne una. Non dico che siano indigesti o altro, ma noi non siamo abituati a mangiarli così spesso. Adesso l’abbiamo messo in modo semiautomatico: gli abbiamo detto cosa vogliamo che conservi nel suo pancione e lui non fa altro che stamparmi tutto quello che sta per finire; sarà scontento di non poterci tenere a dieta a modo suo. Ecco, questa è la lista di oggi; c’è anche la cioccolata al latte e il nocino che lui non si sognava mai di ordinare.
Io mi tiro dietro questo bestiolino servizievole che mi porta la spesa fino in macchina e, arrivati a casa, la scarica e la stiva in frigo; io continuo a chiamarlo frigo; se mi sentisse, si offenderebbe.”Kiappatutto

“Va d’accordo con il suo dispensiere, il frigo insomma? Ho sentito certe storie…”

“Come dico, gli abbiamo un po’ abbassato la cresta. All’inzio si metteva in comunicazione diretta con il servizio consegne automatiche “Non ci pensare più” con il bel risultato che avevamo delle scorte di salsa di soia da annegare Sciangai e decine di barattoli di spezie dell’altro mondo: roba che non so neanche pronunciare. Adesso che la spesa la facciamo io e questo bestiolino affezionato le cose vanno meglio. Ogni tanto si sfoga con il ghiaccio: si mette a snocciolarne fuori dei chili nel cuore della notte; è capace di continuare per un’ora. Noi teniamo la porta chiusa, altrimenti ci sveglierebbe con il rumore. Abbiamo disattivato anche la voce, sennò si metteva a chiamare alle tre del mattino. Ma bisogna capirlo poveretto, forse è anche colpa nostra che gli abbiamo confuso le idee; dev’essere rimasto sul fuso orario di Pechino o ha degli incubi.”

“Eh… ci vuole proprio pazienza, come con quel bel tipino qui che non mi lascia prendere questa vassoietto di pesce… scusi signora, ho visto un commesso umano, in carne ed ossa: un miracolo… Scusi giovanotto, mi potrebbe aiutare? Kiappatutto, il mio robot portatore, non mi lascia prendere questa confezione di spigole, forse lei ne capisce più di me.”

“Faccia vedere… scadono domani, ma ha ragione lui, la confezione è danneggiata in un angolo, non è più perfettamente sottovuoto, o meglio, potrebbe non diventarlo se venisse schiacciata. Lasci a me, le ritiriamo dalla vendita per precauzione. Ci scusi.”

“Grazie. Ehi Kiappatutto, ma quante ne sai, con la tua arietta da bravo bambino? Non ti facevo così furbetto. Niente pesce, stasera, però. Pazienza; quando uno ha ragione, ha ragione.”

Principesse cercansi

Regina di SabaNelle favole i rospi erano dei simpaticoni parlanti, ma dall’aspetto un po’ repellente, che incoraggiavano le principesse a baciarli per divenire immancabilmente bellissimi principi. La vicende si concludeva con un sontuoso matrimonio e, in seguito, i due sposi “vissero felici e contenti”.

Quando una settantina di anni fa i coltivatori australiani di canna da zucchero introdussero nel Queensland dei poderosi rospi importati dall’America meridionale non si aspettavano forse matrimoni principeschi, ma almeno un sollievo dagli insetti infestanti le loro piantagioni. E così fu, in effetti.

Il Bufo marinus, così si chiama il muscoloso rospo capace di pesare fino a due chili, è in grado di avvelenare e uccidere in pochi minuti non solo insetti o piccole prede come lucertole, serpentelli e uccelli acquatici, ma perfino coccodrilli e dingo. Ma come già accadde per altre specie importate dall’uomo in Australia, ha trovato un habitat talmente favorevole e privo di antagonisti naturali da svilupparsi oltre ogni attesa e diffondersi senza controllo in aree sempre più vaste. Come i conigli in passato, è diventato un autentico incubo, insomma.

rospoI naturalisti che stanno tentando di correre ai ripari hanno scoperto che l’anfibio velenoso ha sviluppato zampe sempre più lunghe che gli permettono di spostarsi cinque volte più velocemente dei suoi antenati americani, importati nel 1935. Gli attuali rosponi da battaglia sono in grado di espandersi alla velocità di 55 chilometri all’anno, lasciando dietro di se una scia di morti avvelenati, peggio di una regina rinascimentale.

Gli scienziati non sanno che pesci pigliare; curiosamente nessuno di loro ha pensato d’ importare dall’Europa un congruo numero di principesse disposte a baciare i rospi e a trasformarli in principi. Forse temono una sovrapopolazione principesca fra un paio di secoli.

Per saperne di più, leggi l’articolo sulle BBC news.

Meglio “dormirci sopra”

confusioneLa saggezza popolare, che consigliava di “dormirci sopra” prima di prendere decisioni importanti, pare pienamente confermata da recenti studi olandesi pubblicati su riviste scientifiche e riprese dalle BBC news. Pare, infatti, che quando si debba prendere una decisione come l’acquisto di un auto, piuttosto complessa per la molteplicità degli aspetti da tenere in considerazione, sia meglio lasciare spazio anche all’inconscio, vista la difficoltà di focalizzare a livello conscio molti parametri contemporaneamente.
Insomma, se si tratta di comperare un dentifricio o una scatoletta di tonno, vai e colpisci al volo nel tuo euforico stato di vigile compratore, seppure afflitto da messaggi pubblicitari a tutto spiano e abitudini e preferenze, sedimentate in recessi sconosciuti della tua mente di consumatore, ma quando il gioco si fa duro, lascia lavorare il tuo inconscio, prendi tempo e dormici sopra le notti necessarie.

Altri studi ci avvertono di non decidere mai niente di serio nei primi tre o quattro minuti successivi al risveglio. Il nostro stato di lucidità, in quella terra di nessuno fra il sonno e la veglia, è pari a quello di un ubriaco, a quanto pare. Per quanto mi riguarda, da pluridecennale esperienza personale, posso confermare pienamente questa scoperta scientifica: prima di aver fatto pipì, essermi lavato la faccia e aver bevuto una tazzona di tè, non sono neppure in grado di aprire bocca per un grugnito.

Il peggio del peggio è, poi, essere svegliati da una telefonata assassina contenente una richiesta, anche un semplice sì o un no. In questi casi di pericolo estremo la scienza ci soccorre ancora una volta: rispondi che sei “fuori” perché è vero.

Il grande fratellino

segugio da telefoninoLa notizia è rimbalzata dalla Reuter ai periodici informatici, alle pagine in rete della BBC fino ai quotidiani italiani. In poche parole si tratta di questo: per pochi soldi ci si può abbonare ad un servizio che permette, legalmente, di rintracciare in tempo reale la posizione di un telefonino e vederla comadamente sul proprio computer, rappresentata come un puntino luminoso su di una normale mappa stradale.
Non occorre più ingaggiare segugi vecchio stile, tipo Tom Ponzi o i più poetici “lampionai” della saga degli Smiley’s People di John Le Carré, per sapere in ogni momento dove si trova una persona. Basta che l’ignaro spiato tenga normalmente in tasca o nella borsetta il suo telefonino acceso e che lo spione si abboni al servizio ( ad esempio di http://www.followus.co.uk/ oppure http://www.world-tracker.com/) e vi registri il numero del telefono da spiare.
Appena attivato il servizio, la compagnia, per tutelare la correttezza della faccenda, manda subito un SMS al telefonino controllato in cui avverte il possessore che il suo apparecchio è “tracciato” da quel momento in poi. In seguito, ripete la procedura di avviso, in modo casuale, 28 volte all’anno, cioè ogni 12 o 15 giorni. In pratica, quindi, basta impossessarsi di un telefonino per il tempo necessario per intercettare e cancellare il primo avvertimento per potere iniziare, da subito, un comodo ed economico pedinamento di un dozzina di giorni, mal che vada. Tutti quelli che usano il telefonino solo per telefonare, e sono tanti, ignoreranno sistematicamente gli SMS e non si accorgeranno mai di nulla.
Le compagnie che offrono il servizio legalmente nel Regno Unito ne sostengono i benefici economici e anche di sicurezza, portando ad esempio i vantaggi che potrebbe trarne una compagnia con personale viaggiante afflitto dagli ingorghi di traffico o genitori apprensivi, preoccupati della sorte dei figli minori in giro per un mondo “brutto e cattivo”. E’ indubbio che queste affermazioni hanno un loro fondamento, tuttavia la facilità con cui si può impiegare questo servizio per fini meno nobili appare preoccupante, né consola molto l’affermazione che ogni tecnologia è neutra, mentre solo l’uso che se ne fa può essere buono o cattivo.

Quando George Orwell nel 1948 inventò il suo Grande Fratello, pensandolo come un sinistro strumento vessatorio e onnipresente di uno stato poliziesco da incubo, non poteva certo immaginare che potesse cammuffarsi tranquillamente in un simpatico gingillo colorato che tutti noi ci portiamo in tasca gelosamente e guai se si scarica e si spegne un minuto.

Per ora, non risulta che siano ancora comparse compagnie italiane che offrano un servizio pubblico e a basso costo, analogo a quelle britanniche citate, ma nessuno può pensare che chi dispone da tempo degli strumenti adatti e li usa già per intercettare le telefoninate non stia anche esercitandosi nel banale sport accessorio di tracciare gli spostamenti dei “sorvegliati”, ovviamente a fin di bene e per i più nobili scopi, come abbiamo potuto constatare anche di recente.

Ma non rattistriamoci, per fortuna ci sono anche le telecamere ad ogni angolo delle nostre città che forniscono la nostra immagine dal vivo, altrimenti rischieremmo di essere noti solo per le nostre conversazioni ed i nostri spostamenti: sarebbe un peccato.

RIferimenti:

http://news.zdnet.com/2100-1035_22-6035317.html

http://news.bbc.co.uk/2/hi/programmes/click_online/4747142.stm

http://www.repubblica.it/2006/b/sezioni/scienza_e_tecnologia/accepc/accepc/accepc.html

http://www.followus.co.uk/

http://www.world-tracker.com/

Un carnevale da sballo

carnevaleIeri, martedì grasso, alle tre del pomeriggio ho attraversato piazza maggiore, senza nessuna buona intenzione carnevalizia. Era semplicemente la strada più breve e la più abituale per andare, a piedi, da casa all’istituto di ricerca dove ho lavorato per anni e dove ero stato chiamato per un intervento di pronto soccorso sul server della rete interna, il “mio” server.

Da un palco posticcio, allestito sul sagrato di San Petronio, un vocione caldo e pastoso, ad un volume superiore a quello di dio in persona sul Sinai, rincuorava i bambini, promettendo che sarebbe presto arrivato e che il tecnico accanto a lui stava mettendo tutto a posto. Non ho capito chi o cosa dovesse arrivare o essere ripristinato, ma ho avuto l’impressione che il cordialone al microfono fosse il solo consapevole del disguido, o ritardo. I pochi bambini, con il corredo di un genitore a carico, si aggiravano per la piazza quasi vuota, distrattamente, in attesa di un pretesto per liberarsi dei coriandoli o per svuotare le anemiche bombolette filogenetiche.

Qualcuno aveva il costumino obbligatorio e la faccetta un po’ pitturata con il rouge della mamma; poche le mascherine di cartone; un tigrottino di cinque o sei anni, già stanco, si allontanava dai divertimenti sfrenati acciambellato sul collo del babbo, come gli agnellini delle statuette da presepio.

Chiaramente il clou della festa doveva ancora arrivare, mi sono detto; infatti, attaversando l’incrocio centrale, ho visto in lontananza il poetico trattore, capofila dei carri mascherati, che stava risalendo via Indipendenza.

Un’ora dopo, risolti i problemi della rete che mi avevano richiamato nel mio vecchio santuffizio, sono ripassato dalla piazza. Tutto finito. Il carnevale era già passato, lasciando la sua malinconica bava, stratificata di coriandoli comunali e stelle filanti, che le spazzatrici meccaniche comunali, come avvoltoi, avevano già adocchiato e, volteggiando in giri e rigiri, si accingevano a ghermire e ingurgitare per mezzo di larghe fauci, baffute di spazzole rotanti.

Ai margini, sulle poche bancarelle, i venditori riponevano le pile di cappelli di cartone e le spade d’oro di Zorro invendute e, con qualche indecisione, i sacchettoni trasparenti di coriandoli inesplosi. Dalla faccia, si capiva che erano tentati dalla voglia di buttarli direttamente per terra.

Quella mezz’ora di fuoco deve essere stata uno sballo colossale, però.

Capolavoro sfregiato con… un chewing gum

The BayDurante una visita della sua classe al Detroit Institute of Arts, un dodicenne ha appiccicato il suo chewing gum al dipinto The Bay di Helen Frankenthaler, considerato uno dei più preziosi pezzi in esposizione. La gomma è stata subito scoperta e rimossa dal personale del museo e pare non lascierà danni permanenti, solo una macchietta temporanea.
La cosa interessante è che il ragazzino, opportunamente sgridato, non pare avesse nessuna particolare intenzione di sfregiare un’opera d’arte. Insomma: “Che c’è di male? Aveva già perso il gusto di menta”
I suoi insegnanti giurano che, prima della visita, avevano dato le loro brave dritte agli scolari sul comportamento da tenere dentro al museo ma, “… ha solo dodici anni” , così hanno detto, per giustificarne la condotta.

Personalmente, ritengo che masticare un chewing gum visitando un museo sia già di per sé inaccettabile, e meriterebbe uno scappelloto old style, ma io, come tutti i bolognesi non ruminanti, riconosco di avere un nervo scoperto sull’argomento, perché le macchie nere che deturpano i pavimenti dei nostri bei portici, quelle più resistenti e schifose, altro non sono che gomme da masticare bellamente sputate per terra, ndo’ cojo cojo.
E non si creda che sia un danno economico minore di quello del restauro del dipinto macchiato. Non c’è spazzola meccanica lava-asciuga fornita delle più velenose schiume detergenti, né nostalgica ramazza manuale dalle setole più abrasive che li rimuova; ci vuole una spatola da stucco e molta, molta pazienza per schiodarle dalle marmore superfici a cui hanno aderito.

Bici bomba nel campus

bici bombaUn adesivo con la scritta “questa bici è una bomba” (This byke is a pipe bomb) appiccicato al telaio di una comune bicicletta, legata vicino ad un ristorantino nei pressi del campus dell’Università dell’Ohio (USA) ha scatenato la paura di un attentato ed il conseguente sgombero di quattro isolati nei dintorni.

Dopo cautelose e agguerritissime manovre degli artificieri, giunti in forze con attrezzature esagerate per rimuovere la bicicletta e farla successivamente a pezzi, si è scoperto che era la normale bici di uno sfortunato studente, appassionato del complessino punk-rock “This byke is a pipe bomb” che, nel suo candore, aveva appiccicato lo sticker pubblicitario dell’ignoto gruppetto di musicisti, dimenticando di essere nel paese con i nervi più scoperti del WEST (è il caso di dirlo) sull’argomento terrorismo, specie quello finto e plateale. Come sappiamo l'”intelligence” vacilla, mentre la “stupidity” imperversa, nunc et semper.

Questa storiella vera, successa lo scorso giovedì e riportata dalla CNN, mi ha fatto ricordare le raccomandazioni degli amici in occasione del primo viaggio negli Stati Uniti: “Quando ti daranno un questionario con domande assurde a cui rispondere per ottenere lo sbarco, non fare lo spiritoso. Fa finta che sia una cosa seria e alla domanda se sei un malintenzionato in vena di bombardare gli USA, rispondi rigorosamente NO, altrimenti corri il rischio che ti arrestino.”, ed è vero.

Ancora oggi, dopo che abbiamo tutti visto che, all’occasione, militari americani, maschi e femmine, si lasciano andare con gusto alla loro brave torture di prigionieri irakeni (con foto ricordo) per estorcerne la verità, conservano la tendenza a prendere per vere le affermazioni “sospette” più ingenue e scoperte che, da noi nessuno “fumerebbe”.

British Museum LibraryDev’essere un gene anglosassone esportato oltre Atalantico in forma degradata, perché ricordo un episodio simile capitatomi a Londra durante un periodo caldo di attentati dell’ I.R.A, all’inizio degli anni ’70, quando un guardiano in livrea chiese a mia moglie se aveva una bomba nella borsetta, mentre ci accingevamo ad entrare al British Museum. Lei mi guardò interrogativa, dubitando di non aver capito. Io che ero “più inglese” di lei, per aver trascorso parecchio tempo studiando nella British Museum Library, ai bei tempi in cui le splendide postazioni in cuoio blu sotto la cupola erano aperte a studenti accreditati, le dissi: “Digli di NO”, così potemmo entrare senza ulteriori ostacoli.

Arrivati al centro dell’atrio, dovetti spiegarle che quella del gallonato guardiano non era stato una battuta umoristica vera e propria: “per sicurezza” chiedevano a tutti i visitatori che avevano una borsa grandina se conteneva una bomba e, normalmente, si accontentavano di un no per lasciarli entrare, con quella compiaciuta propensione alla bizzaria, candida e contemporaneamente autoironica, di cui fu maestro Laurence Sterne nel “Tristram Shandy“.

Altri tempi.


Riferimenti:
http://cnn.netscape.cnn.com/news/story.jsp?idq=/ff/story/0001/20060302/2217496630.htm&sc=1120
British Museum Library
http://www.gifu-u.ac.jp/~masaru/Sterne_on_the_Net.html
http://www.gutenberg.org/etext/1079


SCAM: le truffe via email

“Sono erede di un considerevole patrimonio in Nigeria e ho bisogno dell’aiuto di un gentiluomo, quale Lei è, che mi aiuti a tornarne in legittimo possesso, dietro cospicuo compenso…” Questo, in estrema sintesi, il succo di messaggi circostanziati, ben scritti in lingua inglese e lunghi trenta o quaranta righe che non variavano nella sostanza della richiesta, ma si coloravano di particolari diversi riguardo ai luoghi, alle circostanze, alle persone.

In quelli che arrivavano nella mia mailbox, una volta la preghiera proveniva dalla vedova di un alto dignitario africano, altre volte da un parente che tutelava un’orfana ricchissima nigeriana sfuggita alle persecuzioni in patria o altro ancora, ma quello che non cambiava mai era la strabiliante entità della somma promessa come compenso.
Dopo le prime e-mail del 1997 o 98 che lessi ai colleghi di allora per condividere l’ingegnosità e la novità della truffa, me ne sono arrivate tante altre di cui mi basta leggere l’intestazione per decidere di buttarle, insiema con quelle dei veditori di Viagra, di ville in California o di software a prezzi stracciati.
Proprio per questa natura trasparente di truffa, mi ha sorpreso leggere oggi sulle news di ZDnet britannica che i figli di un celeberrimo psichiatra americano, ora ottantanovenne, ma tuttora attivo all’Università di California, gli hanno intentato una causa d’interdizione per avere sperperato più di un milione di dollari in questo tipo di truffa postale, chiamata in America email scam.

Conosco molto bene, ahimè, lo spam: la pubblicità indesiderata via email che affligge tutti noi, ma non conoscevo il neologismo “scam”, assente anche sui dizionari inglesi più aggiornati, così, Google alla mano, ho cercato d’informarmi e ho scoperto che, a dispetto della mia ignoranza, descrive un fenomeno ormai diffuso e documentato che si è diffuso anche in altre forme.

scammersEsistono gruppi di discussione sullo scam e, con il medesimo scopo di difesa, c’è un intero sito dedicato all’argomento, ben fatto ed aggiornato ( http://www.stop-scammers.com/ ). Inizizialmente, mi ha sorpreso il leggere che la variante di scam più diffusa oggi è opera di giovani donne di bell’aspetto -sempre che la foto che esibiscono sia autentica- che cercano e offrono compagnia via email. Il sito scheda le scammer che vengono scoperte ed elenca gli scenari su cui si muovono con maggiore o minore abilità, finezza e perseveranza.

Queste truffatrici postali, una volta preso il pesce all’amo, lo allettano e blandiscono con email sempre più frequenti, personali e coinvolgenti con lo scopo finale di farsi mandare del denaro; ottenutolo spariscono nel nulla.

Stabilita una sufficiente confidenza e intimità, le scammer chiedono il denaro, ad esempio, inventandosi una malattia, personale o di un figlio o di un anziano genitore, che richiede un’operazione chirurgica o costose medicine, introvabili nel loro paese.

Un’altenativa alla malattia è il viaggio per incontrare il loro caro corrispondente postale, ormai ansioso di conoscere di persona la bella interlocutrice lontana: una bella giovanottina bionda russa o ucraina o, perfino una tipica nigeriana (pelle chiara, capelli lisci, occhi leggermente a mandorla).

In questo caso, il denaro viene richiesto per i biglietti e le pratiche burocratiche di espatrio, l’ottenimento del visto ecc.

La terza variante più diffusa è la richiesta di rimborsi per le spese di noleggio del computer in un cyber cafe o simili, per la traduzione delle email dall’inglese al russo e viceversa ecc.

Anche in questi casi di truffa erotico-sentimentale lo scenario varia, come abbiamo visto, ma c’è una costante: appena ricevuto il denaro, la bella affettuosina svanisce nel nulla.

A ben vedere, la faccenda non stupisce più di tanto: l’avidità di denaro nel primo caso, il rincoglionimento erotico-sentimentale nel secondo, rappresentano le due debolezze principali, il terreno su cui i truffatori hanno costruito le loro trappole, da che mondo e mondo. Di nuovo, c’è soltanto lo strumento: l’email

La credulità truffabile ha un giro d’affari molto maggiore di quanto si possa pensare; secondo stime ritenute attendibili, in Italia verrebbero “devolute volontariamente” alle fattucchiere, maghe, negromanti, chiromanti, suggeritrici di numeri al lotto e simili attorno ai sei miliardi di euro all’anno, circa quanto alla chiesa cattolica con l’otto per mille dell’IRPEF.

Niente di strano, dunque, che il mercato truffaldino, un tempo florido nello spaccio di reliquie, come ci racconta Boccaccio (chi non ricorda la penna miracolosa dell’agnolo Gabriello), abbia in tempi più recenti affiancato agli amuleti, sempre vivi e intramontabili, fin dai tempi dei più antichi sciamani, la truffa televisiva ed infine, la posta elettronica.

Sarebbe stato triste vedere l’email disdegnata e discriminata dal popolo degli imbroglioni, da sempre numeroso, intraprendente, ricco d’inventiva e aperto al nuovo che avanza.

Stupisce di più che si sia fatto spillare un milione di dollari un celeberrimo psichiatra, seppure attempato, che delle debolezze dell’umana psiche dovrebbe essere esperto.

All’assalto, dunque, scammer del cyberspazio, siete arrivate ultime a contendere l’osso a orde agguerrite che, in cambio di oro, hanno spacciato per secoli sterco di toro, indici destri di santi venerabili mai vissuti, pozioni miracolose dal sapore emetico, sacre statuette piangenti sangue, combinazioni di numeri vincenti ed altro ancora.

Non temete: d’ingenui da mungere ce n’è abbastanza per tutti a questo mondo e la loro stirpe non si estinguerà mai, fatevi sotto sanza tema veruna e che i lari del WEB vi proteggano.

Barbie, tesoro, ora ti squarto

Barbie“Barbie, tesoro mio, adesso che sono cresciuta ti stacco prima i capelli e poi la testa, ti faccio a pezzi e, alla fine, ti ficco nel microonde”
Secondo uno studio condotto dall’Università di Bath, nel Regno Unito, le accertate e diffuse torture e mutilazioni inflitte dalle bambine cresciutelle alle loro Barbie è tutt’altro che allarmante, anzi piuttosto comune e normale. Si tratterebbe di una sorta di rito di passaggio: ad una certa età, la bambolina viene percepita come un oggetto appartenuto all’infanzia che si vuole abbandonare, e, pertanto, la si butta via come gli adulti fanno con le lattine vuote. Diventa un oggetto senza più alcun valore.
Che ci sia qualche cosa nell’aspetto della bambolina che suscita tanta violenza al momento del distacco, non viene detto nell’articolo dell’Associated Press . Io, invece, un pensierino del genere lo farei: a me è sempre sembrata odiosetta. Resta il fatto che l’inchiesta non menziona orsacchiotti e cagnolini finiti nel forno, dopo un rituale di squartamento degno un filmaccio horror. Come mai?

Diverso è l’atteggiamento dei maschietti nei confronti dei giocattoli equivalenti della loro infanzia: niente odio e violenza, a quanto risulta. Una spiegazione feroce di questo diverso comportamento potrebbe essere questa: il maschio non cresce mai, è un puer aeternus.

Nonostante la strage in atto, la portavoce della Mattel, produttrice di Barbie, ha risposto in modo molto sereno all’intervistatore che chiedeva di commentare lo studio della Bath University e non dubito affatto che fosse una tranquillità autentica: ne vendono tre al secondo, in giro per il mondo.

Serendipity

TutankamonAvevo già letto (e dimenticato) il termine serendipity su di un manifesto di lancio di un film, ma pensavo fosse una di quelle invenzioni holywoodiane che sperano di creare un successo con un termine inconsueto, insomma niente di particolarmente interessante, se non addirittura fastidioso. Mi deve avere deragliato in questa direzione, a suo tempo, il titolo italiano del film che è stato tradotto affiancando all’originale “Serendipity” anche “- Quando l’amore è magia”. Vade retro!Solo ora ho scoperto che cos’è la serendipità, naturalmente in modo serendipitoso, leggendo sulle BBC news che, approfondendo gli studi, un sito nella Valle dei re è stato “degradato” da tomba di un faraone o di un alto dignitario, a laboratorio per l’imbalsamazione. Parlando delle ricerche archeologiche, in generale, l’archeologo intervistato affermava, per giustificare lo smacco: “Despite the advance of science, discoveries like this are often a variable combination of luck and serendipity

Messo in bocca ad uno scienziato, il termine mi ha incuriosito.Che le scoperte in tutti i campi siano una coktail di sapienza e fortuna, lo sappiamo fin dalle elementari, ma che in questa complicata alchimia entrasse anche la serendipità, non lo avevo mai sentito. Stuzzicato, sono andato a spulciare i dizionari con Babylon (sia benedetta la mano che lo creò) e ho scoperto che, curiosamente(?), la s. è definita in modo diverso nei dizionari inglesi e italiani.

L’Oxford concise la definisce “the faculty of making happy and unexpected discoveries by accident” mentre l’Hazon Garzanti traduce il termine inglese come: “serendipità, fortuna strepitosa (nel trovare cose di valore senza cercarle)
Come si vede, nella versione italiana si è persa totalmente la facoltà o capacità di… (“Lost in traslation“, direbbe Sofia Coppola).

Non è una differenza da poco, direi. Nella versione nostrana è puro e semplice “culo”, mentre in quella inglese il fortunato deve anche metterci del suo, avere una capacità o facoltà che non tutti possiedono: insomma è una sorta di Paganini della fortuna e io ne conosco uno di questi fenomeni: è mio figlio Marco che, nel corso della sua giovane vita ha trovato tanti di quegli oggetti preziosi che a me non basterebbe una vita da Matusalemme per arrivare “piazzato” alle sue spalle.
Ho sempre pensato che avesse una dote particolare, ora so che si chiama serendipità.
Buffo che per trovare la definizione giusta del suo dono sia dovuto passare per gli scavi di una pseudo-tomba di faraone nella Valle dei RE.

Senza parole

manifestazione per la pace

Oggi soltanto questa foto AP scattata durante la marcia per la pace a Londra, una delle tante, affollatissime, che si sono tenute ieri in tutto il mondo.

La propongo senza alcun commento perché gradirei molto leggere le interpretazioni dell’ immagine da parte dei lettori di questo blogspot.

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