Quali sono gli elementi che ci aiutano ad associare un nome ad un volto? La faccenda è tutt’altro che chiara e tantomeno scontata, ma qualche passo avanti pare sia stato compiuto dalla Dr Jenny Gimpel dell’University College of London che sta conducendo una ricerca sulle aree del cervello che appaionio coivolte nel complicato processo, che fallisce completamente in presenza di alcune malattie o lesioni che impediscono a chi ne soffre di riconoscere gli amici o, addirittura, i propri figli.
Servendosi della scansione magnetica durante un esperimento di riconoscimento a cui si erano sottoposti volontari sani, la ricerca ha dimostrato che il processo si svolge in tre stadi che coinvolgono tre distinte aree del cervello: la prima analizza le caratteristiche fisiche di un volto, la seconda decide se si tratta di un volto noto oppure no, la terza procede alla ricerca delle informazioni associate a quel volto, attribuendole, ad esempio, il nome.
L’esperimento è stato condotto anche servendosi d’immagini di Margaret Tatcher trasformate gradualmente, per mezzo di un programma di morphing, in quelle di Marilin Monroe. In modo inatteso, il riconoscimento del volto di Marilyn (lo stadio finale della trasformazione) è avvenuto più rapidamente di quanto i cambiamenti delle specifiche caratteristiche fisiche lasciassero pensare.
Il processo a tre stadi (lascia che ti guardi; ti conosco o no; chi sei, come ti chiami ecc.) potrebbe spiegare perché la gente come me, che per mestiere ha incontrato migliaia di facce, tenendo corsi e conferenze in giro per l’Italia, riconosce un volto come vagamente noto, ma non è minimamente in grado di associarlo alle circostanze dell’incontro o, ancor meno, ad un nome che non ha mai saputo.
La ricerca nulla aggiunge e nulla toglie alla inveterata categorizzazione lombrosiana-da-sbarco che accomuna tutti noi mortali nel riconoscimento inoppugnabile delle facce di bronzo, di quelle da assassino e nella vasta e variopinta categoria delle facce da culo.