In punto

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Da quando, ancora con le braghe corte, aveva saputo che l’orologio di piazza sulla robusta torre centrale del castello era opera di un suo bisnonno, il più celebre orologiaio del paese, nonchè appassionato cacciatore, abituato a chiudere bottega quando arrivava l’ora di staccare la doppietta dal chiodo, aveva preso l’abitudine di tenerlo d’occhio. Giusto un’occhiatina per accertarsi che funzionasse bene, senza la pretesa di una precisione cronometrica.
Sapeva bene che della vecchia macchina del tempo a ingranaggi, azionata da pesi madornali, che scendevano verticalmente al centro della torre, non era rimasto più nulla, tuttavia le grosse lancette di ferro battuto non erano mai state sostituite: erano sempre quelle del nonno, anzi, il prosaico motore elettrico che le spingeva lungo la loro orbita era stato scelto proprio di misura, per sopportarne il peso considerevole.

Quando alla stagione delle castagne, passando per la piazza dopo il tramonto, gli parve di vedere la lancetta dei minuti segnare un’ottimistico sei e tre quarti, mentre il suo cipollone da tasca segnava ormai le sette e il suo stomaco, attendibile come un cronometro svizzero, confermava oltre ogni dubbio che era ormai ora di cena, ebbe la tentazione di fermarsi per guardare meglio, ma la nebbia era così fitta da oscurare anche la facciata del duomo in fondo alla piazza e il suo tabarro era già fin troppo pesante e freddo per l’umidità accumulata. A casa la polenta doveva già fumare sul tagliere e il coniglio alla cacciatora era sicuramente pronto, in caldo sulla stufa, per farle compagnia. Si rincagnò il cappello e tirò dritto.

La mattina seguente doveva partire presto per un viaggio lungo. La nebbia era ancora più fitta, ma la sua bicicletta da bersagliere sapeva la strada meglio di un vecchio cavallo. Quando incontrò la prima frasca, il sole era già arrivato alla cima degli olmi e stava facendo del suo meglio per spuntarla sulla nebbia, ma non ci era ancora riuscito. Meglio fermarsi a bere un mezzo litro al caldo e lasciargli il tempo di fare un po’ di chiaro, prima di ricominciare a pedalare. In alto al centro, proprio sopra il bancone dell’oste, c’era un grosso orologio tondo, apparentemente fermo da un pezzo. Non una pendola, ma un grossolano sveglione da muro con il quadrante ingiallito dalle cacche di mosca e un dito di polvere unta dovunque fosse in grado di depositarsi.

“Va bene quell’orolgio?”, domandò all’oste prima di sedersi sulla panca vicino alla stufa accesa.
“Altroché, segna sempre che è ora di bere. Cosa vi porto?”
Quando, con il toscano acceso in bocca, tentò di rimettere in carreggiata la bicicletta, si accorse che la sosta all’osteria le aveva fatto male: non era più capace di andare dritta. Un inesperto avrebbe potuto cercare una relazione fra i tre mezzi litri di lambrusco e le spettacolari oscillazioni della partenza, ma lui che inesperto non era, pedalò con maggiore determinazione, ben sapendo che se fosse sopravvissuto in sella ai primi metri, bici e strada avrebbero finito con il trovare un autonomo equilibrio, sufficiente per avanzare se non proprio per andare dritto, poi l’aria fresca avrebbe soffiato via anche la nebbia che aveva in testa. E così fu.

Verso mezzogiorno, con il sole bello alto e ormai vittorioso, quando gli austeri filari di pioppi cipressini, dominanti dagli alti contrargini, rivelavano la presenza del fiume, ancora nascosto alla vista, trovò un’osteria adatta per passarvi la notte, certo di essere arrivato vicino al grande fiume dove crescevano anche i salici flessuosi, potati a sgamollo, che costituivano la meta del suo viaggio.
Cercava un boschetto in golena di piante giovani da comprare per la sua piccola fabbrica di truciolo. In un paio di giorni contava d’ispezionare la zona e concludere l’affare. Era analfabeta, ma i conti li sapeva fare a memoria, senza bisogno di carta e lapis, per non parlare di altri aggeggi ancora da inventare. Girando senza parere fra i sentieri del bosco era in grado di valutare, a colpo d’occhio, quanto legno avrebbe potuto ricavarne per i suoi pagliari che, a casa, avrebbero provveduto a segare in pezzi i lunghi rami, grossi come un braccio, a scortecciarli e a ricavarci tutte le paglie che si potevano ottenere, scartando solo un mazzuolo, troppo sottile per essere lavorato, buono solo per il camino o per mescolare la polenta nel paiuolo.

Quando scartò sul tavolaccio la sua bella fetta di gorgonzola, portata da casa per ogni emergenza, in attesa che l’oste gli portasse il pane e il primo mezzo di rosso, la pendola attaccò a suonare mezzogiorno. Finalmente un orologio in punto, che andava d’accordo con quello del suo stomaco, il solo di cui si fidava ciecamente. In un lampo gli tornò in mente l’orologio di piazza, chissà se stava battendo anche lui i dodici rintocchi?

Di fronte gli stava seduto uno che doveva già aver finito di mangiare. Fumava la pipa e ogni tanto allungava la mano per una carezza rustica al suo cane, accovacciato sotto il tavolo: nessuno dei due parlava, ma avevano l’aria d’intendersi bene ugualmente.
“Ce n’è, quest’anno”
“Di trifola ce n’è sempre, se uno ha un buon cane e sa dove dirgli di cercarla”
“Allora ne avrete trovata anche oggi, me ne vendereste una patata o due?”
“Due piccoline, va bene? E’ trifola nera, ve la dò per dieci scudi” e mentre parlava, il trifolaro si alzò trattenendo a terra con una occhiata il cane che, escluso dalla trattativa, lo guardava con aria interrogativa. Raggiunto il tavolaccio, vi posò due tartufi poco più grossi di una noce che furono prontamente intascati, terra compresa. Il pensiero che i suoi vestiti e l’intera sua persona non si sarebbero mai più liberati da quella puzza pregiata non lo sfiorò neppure. A lui piaceva quell’odore, perfino più di quello del toscano e sua moglie aveva un bel da arieggiare al sole le sue giacche, non c’era niente da fare.
Quando, alla fine della settimana, la sua bicicletta lo riportò a casa, era già scuro da un pezzo, ormai l’ora di cena. Allungando un po’ la strada passò dalla piazza; l’orolgio segnava le sette meno un quarto: bel caso. La stessa ora, precisa. Che fosse fermo?
La domenica mattina, con il tabarro della festa, a due dritti, e un cappello quasi nuovo andò in piazza, dove si erano già formati i soliti piccoli crocchi dei giorni festivi. Alzando gli occhi verso la torre, gli passò ogni dubbio: l’orologio era proprio fermo.
Domandò in giro: chi disse che ci aveva nidificato una poiana, chi spiegò che c’era stato un cortocircuito dopo un temporale che aveva bruciato irrimediabilmente il motore elettrico, un paio di filosofi a piede libero sostennero che anche gli orologi invecchiano, come tutti i cristiani, e, alla fine, si fermano, ma tutti concordavano nel dire che sarebbe stato sostituito con uno più moderno, nuovo di zecca, che era già stato ordinato dal sindaco in persona nella foresta nera, dovunque si trovasse ‘sto bosco.
“E le sfere? Cambiano anche quelle?”
“No, cosa c’entra, le lancette vanno sempre bene; poi belle così non le sanno più fare”
Il capolavoro del nonno sarebbe stato salvo ancora per un pezzo, allora; cambiassero pure la macchina nascosta dietro la facciata della torre; anche se era forestiera, chi la vedeva quella?
Le due poderose lancette di ferro battuto, invece, non sarebbero durate in eterno, ma, di sicuro, avrebbe fatto in tempo a morire prima di loro, senza vederle arrugginire fra i rottami.

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