C’era una volta la sterlina

I musicanti di Brema
Sto leggendo alle mie nipotine le favole raccolte da Italo Calvino nelle varie regioni d’italia.
Molto spesso le fiabe dopo il celebre “C’era una volta…” raccontano di un padre che aveva tre figli ai quali voleva lasciare equamente le sue ricchezze. A meno che non capitasse come nella favola “Il drago delle sette teste” raccolta a Montale Pistoiese in cui ai tre figli tocca un cavallo un cane e una spada a testa, dl solito la situazione era piuttosto bislacca.
Capitava, ad esempio, che al primogenito toccasse un cavallo al secondo un cane e al terzo soltanto un gatto, senza neppure i famosi stivali. Del tutto impossibile sarebbe stato per il padre equanime suddividere con il sistema decimale un patrimonio di 1000 fiorini d’oro.
L’impresa sarebbe riuscita facilmente, invece, ad un padre inglese che avesse dovuto dividere fra i tre figli mille Sterline d’oro. Infatti a ciascuno avrebbe potuto dare esattamente 333 sterline due scellini e 4 pence, a patto che la suddivisione fosse avvenuta prima del 15 febbraio 1971, quando anche nel regno di Elisabetta II la sterlina fu divisa banalmente in 100 centesimi, con la costernazione di tanti amanti delle favole e dei sistemi assurdi, me compreso.
Come tanti anglofili non di primo pelo ricorderanno, infatti, prima di quella data funesta la sterlina in cartamoneta era divisa in 20 scellini d’argento ciascuno dei quali era diviso in 12 pences di rame. In realtà però, oltre ai grossi e pesanti penny di rame, esistevano i più piccoli throppen di ottone del valore di tre pences, i sixpence d’argento del valore di sei pence o mezzo scellino, gli scellini del valore di un ventesimo di sterlina pari a dodici pences, le mezze corone del valore di due scellini e sei pences, le corone del valore di cinque scellini in monete d’argento.
C’erano poi anche le virtuali ghinee, del valore di ventun scellini, inesistenti, ma con le quali s’indicava il prezzo dei vestiti di sartoria tagliati su misura in Bond street, mentre il prezzo degli abiti già confezionati, venduti da Harrods, era indicato banalmente in sterline (pound).
Un sistema da favole, appunto, dove fare benzina negli anni ’50 con una Vespa 125 fornita di un serbatoio di capienza inferiore ai due galloni era un incubo nelle rare pompe a mano sfornite di pistola erogatrice nei desolati Highlands scozzesi dove bisognava fare il pieno per non rischiare di rimanere a secco in mezzo alla brughiera.
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Il gelsomino

gelsomino
Gelsomino
Non sono un botanico come mio padre e tutto quello che so sul mondo vegetale l’ho imparato da lui da bambino è più tardi da documentari naturalistici, a volte bellissimi, che guardo sempre con molto interesse.
Il mio affetto non va tanto ai fiori meravigliosi quanto ai tigli fioriti che hanno sempre significato per me la fine delle scuole e l’inizio delle vacanze, e soprattutto ai miei fratelli pioppi.
Quando ero bambino, mio padre piantò un filare di pioppi canadesi (ibrido 714) lungo un canale che costituiva il confine orientale del nostro podere e io li guardavo crescere, anno dopo anno, come fossero dei bambini che stavano sviluppandosi insieme a me. Diventarono alberi meravigliosi che per qualche anno riuscivo a stringere fra le mani, poi ad abbracciare fin quando diventarono troppo grandi per le mie braccia che si allungavano, ma non abbastanza.

Pioppi

L’affetto più costante e duraturo, però, l’ho sempre avuto per le piante rampicanti, in particolare per il gelsomino bianco, il glicine e il caprifoglio, mentre non ho mai amato molto l’edera e la vite americana per il loro eccessivo rigoglio infestante e la mancanza di profumo.
L’eroica fioritura del decrepito gelsomino a spalliera sul balcone non ha più la forza di rallegrare la casa con il suo profumo all’arrivo della stagione primaverile, quando si possono lasciare aperte le finestre, ma per fortuna, lungo il percorso delle mie passeggiate pomeridiane prosperano ancora meravigliose siepi lussureggianti di gelsomino che s’imbiancano di fiori.
Profumano il mio cammino e mi ricordano che anche per me è passata un’altra stagione.

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Al sulfaner

E’ appena passato davanti al cancello del giardino della casa al mare un venditore di materassi con il suo furgoncino vociferante, ormai una vera rarità.
A cosa sia dovuta la quasi totale scomparsa della pubblicità vocale itinerante credo sia difficile da dire in due parole. Resta il fatto che ormai sentire passare auto attrezzate con altoparlanti che reclamizzano una prodotto o un evento o un luogo di ritrovo è ormai una autentica rarità anche in posti di mare dove la gente si rifugia d’estate per sfuggire la calura delle città ormai tropicalizzate e soffocate dal traffico.
Ricordo che da bambino, nell’immediato dopoguerra quando nella città semidistrutta si abitava, adattandosi , nelle case rimaste in piedi, la mattina venivo svegliato dal passaggio del solfanaio.
Condividevamo, in subaffitto, con due anziani fratelli, parte di un appartamento principesco che si affacciava su via Guerrazzi quasi di fronte a palazzo Carrati, sede della seicentesca Accademia Filarmonica nella quale anche il giovane Mozart ottenne nel 1770 l’ambita patente di Maestro compositore.
Io dormivo in una stanza che era stata uno studiolo dalle pareti ricoperte di damasco dorato che si affacciava sulla strada al primo piano dove i rumori del portico e della strada giungevano ben distinti.
Spesso, fra questi, arrivava il suono delle trombetta del “solfanaio” che si annunciava agli abitanti mattinieri con il suo urlo cantilenante: “Solfanaio… naio, a je al sulfaner” seguito da qualche colpo della sua corta trombetta curva di ottone. Era niente di meno dello straccivendolo di zona che raccattava tutte le cianfrusaglie di cui ci si voleva liberare pagandole non in monete ma in “sulfanen”: gli zolfanelli con cui accendere il fuoco. Questi antenati dei fiammiferi da cucina, usati come moneta, erano proprio bastoncini con una capocchia di zolfo giallo e lucente. A volte il solfanaio esemplificava con ironia cosa era disposto a raccogliere: “Straz, oss, cavi” (stracci ossa, capelli) sperando in ben altro, naturalmente.
Meno frequenti erano i richiami dell’arrotino e dell’ombrellaio. In un’epoca stentata di cappotti rivoltati e di scarpe risuolate, in cui non si buttava niente. L’arrotino con una piccola mola azionata a pedali su di una bici modificata ridava lucentezza e filo a vecchie forbici, coltelli da cucina e alla preziosissima “coltellina”: il lungo tranciante a punta quadrata con cui si tagliava la sfoglia, ricavandone tagliatelle, tagliatelline da brodo, quadretti, maltagliati e lasagne quadrate.
Veniva religiosamente adoperato dalla sola “resdora” e solo per questo scopo; spesso era custodito in una fodera su misura cucita in casa e noi bambini non dovevamo neanche guardarla.
Meno tecnologica era l’attrezzatura dell’ombrellaio a cui bastava un angolo di portico dove appoggiare i sui modesti attrezzi con cui sostituiva le stecche, il manico o rappezzava la cupola di vecchi ombrelli invalidi che colpi di vento o un uso eccessivo e malaccorto avevano reso inutilizzabili.
Il ciabattino itinerante, invece, non c’era ormai più in città quando ero bambino. Resisteva solo durante la fiera di Santa Lucia, sotto i portici di Santa Maria dei Servi in forma di statuina per il presepe insieme agli altrettanto illustri scomparsi: il vasaio e la mistocchinaia con il suo fornelletto a carbone.
Decenni più tardi durante il periodo estivo quando lasciavamo, come ora, la casa di città per quella al mare ricominciava in forma diversa e molto più fastidiosa e insistente la rumba della pubblicità vociferante. I più molesti reclamizzavano spassose serate in un “piccolo bar club” dove non avrei mai messo piede se non altro per deluderne la insistente réclame diffusa con un nastro senza fine a volume assordante.
Oltre ai materassai, rari arrotini con attrezzature più moderne si facevano sentire ogni tanto di mattino, ma il più caratteristico era un pescivendolo che con voce di tomba reclamizzava il suo pesce con una strascicata cadenza comacchiese: “Pese, pese fresco, pese vivo. Ho la sogliola, la sogliola bella, la sogliola viva. Pese, pese fresco, pese vivo”. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, ripeteva lo stesso mantra senza variazioni, ma dal vivo, senza usare un banale nastro e a bassa voce, quasi un sussurro rivolto a pochi intimi.
Ora non passa più nessuno. Che sia per la pervasiva presenza di AMAZON che ti scodella a casa -rapidamente e puntualmente- tutto quello che vuoi, o per altri motivi, non saprei dire. Di certo non mi strappo i capelli ripensando con nostalgia alla vociona invadente del piccolo bar club e non mi manca tanto neppure “la sogliola bella, la sogliola viva”.

Le cicale

Come i versi di un’encomiastica poesia
Friniscono le cicale sopra casa mia
Il loro verso querulo ed insistente
s’insinua fra le pieghe della mente
per sfuggirle bisogna andare via

Aquiloni eolici

Leggo in un interessante articolo che diverse compagnie in varie parti del mondo stanno studiando il modo di sfruttare il vento per la produzione di energia elettrica in modo meno costoso, più pulito e con minore impatto sul paesaggio di quanto non facciano le pale eoliche che ormai sono diffuse anche qui da noi in italia.
La prima volta che vidi un vastissimo parco eolico venivamo in macchina da Las Vegas e ci dirigevamo verso San Francisco dopo avere attraversato la Valle della morte; il grande parco nazionale a cavallo fra il Nevada e la California. Come suggerisce il nome, la Death Valley è un deserto impressionante e ritrovarsi, quasi all’improvviso, fra colline verdeggianti coperte di bianche pale eoliche fu una sorpresa piacevole e queste bianche torri con le loro pale in lento movimento mi sembrarono belle e non mi provocarono alcuna ostilità. Erano quasi un ornamento a quelle deserte colline verdi del tutto prive di un carattere storico o paesaggistico da preservare.
Sicuramente il discorso cambia quando, per fini speculativi, le torri eoliche compromettono paesaggi fortemente antropizzati da millenni, come accade in Puglia o in Sicilia e, in misura minore, anche qui sul nostro Appennino Tosco Emiliano.
Sicuramente se si riuscisse a produrre energia elettrica con aquiloni o droni parcheggiati a centinaia di metri da terra l’impatto paesaggistico sarebbe del tutto neutralizzato ed è proprio quello che stanno cercando di fare diverse compagnie dislocate in varie parti del mondo.
Si tratta di manufatti hi-tech molto costosi che non ricordano certo gli aquiloni colorati che da bambini facevamo con canne palustri e carta velina, così fragili e imperfetti che raramente duravano più di qualche ora di gioco.
C’è da augurarsi che questi tentativi in corso abbiano successo e producano energia elettrica pulita senza deturpare il paesaggio, in attesa che la fusione nucleare ci affranchi in modo definitivo dalla dipendenza da combustibili fossili e da altre fonti alternative costose e problematiche.

La bici folletto

Alla fine degli anni Ottanta lessi in un romanzo cyber di William Gibson di una macchina a guida completamente autonoma che era in grado di venirti a prendere sotto casa e portarti con sicurezza alla destinazione semplicemente dicendole l’indirizzo a cui doveva arrivare. Mi sembrò un sogno che avrei voluto vedere realizzato prima di morire. Nel romanzo,si chiamava Hamed quel portento di tecnologia costruita a Damasco.
Ora, dopo una cinquantina d’anni, mi sembra che siamo abbastanza vicini, finalmente, alla realizzazione di una macchina dalla quale ti fai scarrozzare e, giunto a destinazione, le dici “Vai a parcheggiare e vieni a prendermi qui alle 6.”
Superano però anche i miei più spericolati sogni le nuove biciclette che inventori sparsi in varie parti del mondo stanno preparando con studi convergenti .
A quanto leggo su un interessante articolo del Sole 24 Ore, UBER, la controversa compagnia odiata dai tassisti, che ora è molto interessata anche alla micro mobilità urbana, cerca proprio di trovare la soluzione per offrire biciclette che stanno in equilibrio senza un umano pedalatore sulla sella.
Questa bici-folletto dovrebbero essere in grado di raggiungere chi ne ha bisogno e l’ha invocata con un colpo di telefonino. Raggiunto il cliente, cesserebbe di muoversi in autonomia lasciando al suo temporaneo padrone il piacere di guidarla con pedalata assistita fino al raggiungimento della metà.
A quel punto la super-bici concluderebbe il suo compito ritornando in piena e solitaria autonomia nel parcheggio attrezzato in cui ricaricare le batterie e attendere la successiva chiamata.
Meglio di un tappeto volante evocato dal genio della lampada.
Non so se vedrò mai una di queste bici e avrò l’opportunità di servirmene in alternativa temporanea alla mia WANDER azzurra che cavalco da più di sessant’anni.
Certamente sarebbe stata molto utile a Marino, un ubriacone che frequentava un’osteria vicina alla casa dove passavo parte delle vacanze estive. All’ora di cena, prima di rincasare, arrivava in bici dal lavoro e si fermava a fare il pieno di lambrusco all’osteria, poi usciva e, per il crudele spasso di noi bambini della contrada che l’aspettavamo al varco, tentava di risalire sulla bicicletta offrendo uno spettacolo penoso ed esilarante: dopo una serie di sbandate e serpentine non di rado finiva a terra mentre la bici, sobria e paziente, continuava per qualche metro in autonomia prima di fermarsi, a sua volta, ribaltata sui ciottoli della strada, in attesa di essere riaccompagnata a mano nel cortile di casa.