Tagliavano l’erba con la falce fienaia

falciatori

Tagliavano l’erba con la falce fienaia
Le strade erano strette e bianche di ghiaia
Accendevano il fuoco con la pietra focaia
Tagliavan la legna con la mannaia
Dormivano al freddo nella pagliaia
Rara la carne nella ghiacciaia
A cena solo polenta sulla spianaia
Tiravano l’acqua dal pozzo nell’aia
Credi proprio che la vita fosse più gaia?

La poltrona a dondolo

poltrona a dondolo
La mia “storica” poltrona a dondolo di bambù

Una poltrona a dondolo sobria e accogliente
Per ripercorrere i sentieri della mente
Ricucire le pezze di un passato
Rattoppato ma non dimenticato
Riapparse nella foschia del presente

Pitagora

Nel disegnare un rettangolo un triangolo un trapezio
Appagava ogni suo più recondito sfizio
Mentre per i numeri non aveva passione
Piuttosto antipatia e quasi repulsione
Lo chiamavano Pitagora a giusta ragione

Le faccine di Margot

Sulla tovaglietta con una punta fine
Disegnava soltanto minuscole faccine
Con baffi sottili e barbetta da moschettiere
Stavano tutte nell’impronta di un bicchiere
Né braccia né gambe soltanto tre testine

Nell’immagine una composizione fotografica di disegni di mia nipote Marguerite Leonard

La monetina

monetina

Proprio sul fondo di una grande piscina 
Si cullava nelle onde una monetina
Scappata da un buio opprimente borsellino
Luccicava al sole di un limpido mattino
Ormai certa di un vago brillante destino

Pipae, piparum, pipis (ultima parte)

Chiudo questa piccola serie “pipae,piparum, pipis” con la citazione da un mio vecchio post “Le venature della sorte” del dicembre 2004 che potrai leggere per intero cliccando qui seguita da una filastrocca che ritrovi nel post del 5 sttembre 2003 “… una pipa sempre in bocca e guai a chi la tocca”

_______________

Con il passare degli anni, aveva imparato a leggere anche la venatura delle pipe. Di alcune, improvvidamente ricavate da ciocchi disgraziati, aveva facilmente previsto la sgradevole natura o la precoce vocazione al suicidio: si nascondevano in tasche dismesse fino alla sparizione finale o si buttvano dal terrazzo su uno dei pochi sassi ornamentali del giardino, spezzandosi il collo irrimediabilmente o, addirittura, si catapultavano direttamente dalla tasca in un tombino fognario, azzeccando un’improbabile fessura, apparentemente incapace d’inghiottirle.


Nella meravigliosa vena ascendente di una pipa fiammata, conica, di media capienza aveva, invece, scorto un destino felice, una predisposizione contagiosa alla felicità, forse all’immortalità. Era ben raro che non fosse presente fra le quattro o cinque pipe che solitamente popolavano le sue tasche e non se ne sarebbe separato per nessuna ragione. Quando la sua mano, pescando distrattamente in una delle tasche, la estraeva per caricarla e fumarla, era certo che si sarebbe goduto una bella pipata, senza brutti pensieri. 
Da vecchio aveva quasi dovuto smettere, per le pressioni di medici e famigliari sobbillati da paranoiche campagne di dissuasione al fumo, ma ogni tanto una buona fumata nella pipa del destino continuava a concedersela, incurante di rimbrotti e lamentele, finché la rottura di un femore non lo costrinse in ospedale. 
Secondo il chirurgo, doveva trattarsi di una degenza breve e senza problemi e tale sarebbe stata se un’inflessibile caposala, animata dalle peggiori intenzioni di far bene, non avesse confiscato la sua pipa dal cassetto del tavolino, dove il nipote premuroso che lo assisteva l’aveva deposta, ben consapevole dell’importanza vitale nascosta nelle sue venature. 
Qunando, al risveglio precoce dall’anestesia, nel tentativo di ricostruire la mappa della nuova situazione e trovare un segno della sorte che lo attendeva, volse il suo sguardo dalle pareti bianche ed anonime della stanza al tavolino, per leggerne le venature, dovette constatare che non ne aveva. Non era altro che una triste parodia di tavolo, ricoperto da un laminato mortalmente amorfo. Con impazienza, si girò allora per cercare la sua pipa nel cassetto, staccando tubi e fili che lo impastoiavano, per trovare conforto nella sua venatura rassicurante. Quando lo vide asetticamente vuoto, non ebbe bisogno di altri segni; si adagiò sulla schiena e chiuse gli occhi malinconicamente, consapevole che di lui neppure una ceppaia sarebbe rimasta, per raccontare la sua storia ad un bambino curioso.

_______________

una pipa sempre in bocca..

“Chi non fuma nella pipa non capisce la canzon” (a mio nonno) 

Una pipa piccolina da fumare la mattina 
una pipa molto scura solo in caso di paura 
una pipa tutta nera da fumare quando è sera 
una pipa fra le dita per guardare la partita 
una pipa sempre in bocca e guai a chi la tocca 
una pipa da succhiare se c’è vento in riva al mare 
una pipa larga e tonda se c’è calma sulla sponda 
una pipa con ghiera d’argento in caso di maltempo 
una pipa di scorta in tasca se minaccia una burrasca 
una pipa corta e stretta per i giri in bicicletta 
una pipa perduta? Non bere la cicuta 
una bella pipa di schiuma, beato chi la fuma 
una pipa figurata: meglio d’una scampagnata 
una pipa di radica chiara mezza dolce mezz’amara 
una pipa tutta d’osso, buttala nel fosso 
una pipa di terra rossa purché sia proprio ben cotta 
una pipa qualunque lasciala a chiunque 
una pipa da signorina lunga sottile e leggerina 
una pipa da vecchio bella grossa e lucidata a specchio 
una pipa o due rare belle solo da guardare 
una pipa da collezione niente fumo tutto blasone 
una pipa regalata ti rallegra la giornata 
una pipa sol per me la più buona e bella che c’è 
una pipa, poi un’altra e un’altra ancora finché arriva la buonora 
una pipa e basta.

A Marziale in esilio

Marziale

Agognava un pubblico colto e intelligente 
Che raccogliesse i frustuli della sua mente 
E ne facesse dei versi perfetti e immortali 
Dei capolavori unici senza pari né uguali 
Ma lì intorno non c’era che povera gente

Mimetismo

Sotto la cupola di un pino a ombrello
Si nascondeva un grosso uccello
Si muoveva silenzioso e circospetto
Saltellando di rametto in rametto
Con un mimetismo quasi perfetto

Pipae, piparum, pipis (quarta parte)

Non ho mai conosciuto un indiano d’America in penne e ossa in vita mia. Il solo che ho incontrato era un moroso di mia figlia quando studiava ad Andover: il prestigioso college vicino a Boston .
Era un ragazzo tranquillo e silenzioso; si chiamava Oni at se (Nuova Neve che scende), ma non fumava nemmeno una banale pipa nostrana.
Mi sarebbe piaciuto incontrare un vecchio che avesse un kalumet tradizionale fra i suoi ricordi di antenati e sapesse dirmi qualcosa di vero su come lo caricavano e cosa mettevano dentro al fornello veramente.
Si è letto di cortecce di piante dal sapore amaro, addolcite con altre meno sgradevoli e di graminacee, ma sono fonti poco attendibili.
Si sa che tutte le tribù avevano uno stregone che li mettesse in contatto con il Grande Spirito quando non bastava il fumo del kalumet che si innalzava verso gli spiriti degli antenat,i ma non è mai comparsa la notizia che fra le funzioni indispensabili alla coesione e alla serenità di una tribù ci fosse un tabaccaio: un addetto a procurare le erbe da fumare dentro alla pipa sacra che tanta importanza aveva nelle tradizioni individuali e sociali degli indiani.
È certo che il cannello era lungo una spanna o anche molto di più, era di legno di frassino e, solitamente, veniva ornato e impreziosito con penne, frammenti di corno di animali che venivano cacciati per la sopravvivenza della tribù.
Il fornello riccamente intarsiato era di pietra scura o di alabastro.
Ogni membro della tribù aveva la sua pipa personale, ma nelle importanti riunioni tutti fumavano in cerchio la stessa pipa rituale passandosela di mano in mano.
Di kalumet veri ne ho visti alcuni una volta sola in vita mia, appesi alle pareti di una strana osteria in cui eravamo capitati per caso.
C’erano anche frecce piumate, lance, archi e amuleti vari. Nel mezzo della sala c’era una specie di trono di cuoio con le gambe ricavate da grossi corni di bisonte.
Ai tavolini dell’osteria sedevano dei veri indiani con l’aria piuttosto sconsolata. All’esterno non cavalli, ma sgangherati pick up erano i mezzi con i quali avevano raggiunto l’osteria dalle loro abitazioni nella riserva nella quale eravamo capitati senza saperlo.
Mia figlia Valeria aveva terminato il suo anno di studio e mio figlio Marco ed io eravamo andati a prenderla a Boston, ma prima di rientrare a Bologna avevamo fatto un lungo viaggio di una quarantina di giorni, da nord a sud da est a ovest, negli Stati Uniti d’America, servendoci di aeroplani e auto noleggiate agli aeroporti.
Durante una di queste scorribande in macchina, non lontani dal Grand Canyon, ci eravamo imbattuti per puro caso nell’osteria dei kalumet e del trono di bisonte .
Nessuno dei presenti seduti ai tavoli fumava kalumet o simili e non avevano l’aria di parlarne volentieri con uno stupido straniero in vena di chiacchiere.
Un ‘occasione persa, insomma.

Pipae, piparum, pipis (terza parte)

L’anno dopo il soggiorno londinese di studio nella British museum library tornai nelle isole britanniche in auto con Emilia allora diciassettenne, figlia di carissimi amici di famiglia da più generazioni, che me l’avevano affidata perché cominciasse i suoi studi d’inglese, ignorato nel suo corso al Liceo classico di Correggio.
Dovevamo raggiungere Edimburgo per seguire un corso estivo per stranieri. In realtà era un corso di scozzese più che d’inglese, come scoprimmo subito, tenuto da docenti dell’ Università dalla spiccata pronuncia locale che non nuotavano nell’oro, a giudicare dalle giacche rappezzate e consunte di Harris tweed.
I corsisti erano in buona parte adolescenti di mezza Europa, con una prevalenza di scandinavi. Ricordo una ragazza danese che durante il coffe-break fumava la pipa come me, con mia favorevole sorpresa. Quando le dissi che era la prima ragazza con pipa che avessi mai conosciuto, si sorprese. Sosteneva che in Danimarca le fumatrici di pipa erano tutt’altro che rare, anche nella sua famiglia.

Naturalmente la pipa era molto diffusa anche fra i docenti, a differenza di quanto accadeva fra i professori di liceo o universitari, da noi. In tutta la mia carriera scolastica mi capitò d’imbattermi in un solo docente pipafumante: un supplente di latino e greco al liceo, mentre moltissimi fumavano sigarette.
La vicenda più memorabile e piacevole del corso erano le serate organizzate per noi studenti nel Chaplaincy Center: un luogo di ritrovo universitario che sembrava una piccola chiesa protestante vagamente gotica, di quelle in legno fatte in serie; tutte uguali e disseminate nei villaggi scozzesi. In realtà, almeno per quanto riguardava noi corsisti stranieri, non vi si svolgevano attività religiose, ma s’imparavano i balli scozzesi al suono di pipes and drums, secondo la tradizione.
Per un paio di ore almeno, imparate le figure obbligatorie sotto la guida di una insegnante paziente, eravamo liberi di scatenarci in balli tradizionali scozzesi a due, a tre a quattro coppie. Alle fine ero accaldato come dopo una partita di football, ma mi ero divertito molto di più.
La mia passione era l’ eight-some reel, così mi pare si chiamasse un complicato ballo che coinvolgeva in varie figure obbligate quattro ballerine e quattro ballerini.
Quando mi capitava come partner una morettina svizzera del cantone di Coira restavo stupito del suo impeccabile aplomb alla fine delle giravolte scatenate: restava fresca come una rosa.
A volte, alla fine delle danze, si cantava in coro. Ricordo la voce emozionante di una ragazza svedese quando attaccava in assolo “Cumbaya my Lord”. Non era Joan Baez, ma, in quell’ambiente faceva venire i brividi.
Ci ospitava nella sua casa la vedova di un ufficiale che oltre agli ospiti paganti, accudiva anche il vecchio padre vedovo. D’inverno occupavano le tre stanze studenti universitari che d’estate, quando tornavano a casa, venivano rimpiazzati da ragazzi stranieri come noi.
Uno studente di veterinaria che aveva finito e stava per laurearsi si trattenne per qualche giorno mentre eravamo già presenti noi “estivi” . Era un ragazzo cordiale che c’invitò alla festa di laurea e noi, naturalmente, fummo felici di partecipare. La cerimonia si svolgeva all’aperto in modo collettivo. Tutti insieme i laureandi, con toga e tocco presi a nolo, partecipavano alla cerimonia che aveva ai nostri occhi un’aria carnevalesca, se confrontata all’austera discussione individuale della tesi presso l’Alma Mater di cui avevo un ricordo freschissimo.
La padrona di casa era una donna gentile, piuttosto austera, mentre un personaggio cordiale era suo padre con il quale era doveroso trattenersi per un po’ di conversazione alla fine della cena. Era un fumatore di pipa molto esperto che tirava con rilassata metodicità senza mai lasciare spegnere la sua pipa curva mentre conversava con noi.
Una volta per esporci meglio la sua ammirazione per gli antichi romani, di cui elogiava le abitudini alimentari, estrasse la pipa di bocca un po’ troppo allegramente e arpionò la dentiera che volò in mezzo al tavolo già sparecchiato chiudendosi con un rumore secco.
Noi due ragazzi non battemmo ciglio e gli demmo tutto l’agio di raccogliere i denti e continuare il discorso come niente fosse.
Naturalmente durante la passeggiata serale fino ai giardini di Princess Street, commemorammo la scena comica con le dovute risate che avevamo trattenuto con un self-control più British degli stessi britannici che ci sforzavamo di imitare, almeno per quanto riguardava la lingua.
I Princess street gardens sotto l’imponente Edinburgh Castle, si animavano dopo il tramonto specialmente se c’era una banda che suonava su di un palchetto accanto alla grande pista da ballo circolare. Con un sixpence si poteva partecipare al ballo collettivo. Le coppie danzavano balli classici come il waltzer e si muovevano molto compostamente in senso orario senza intralciarsi o urtarsi ruotando come satelliti attorno ad un immaginario pianeta al centro.
La passione per le bande era diffusa a giudicare dal pubblico numeroso che ne ascoltava i concerti, ma di gran lunga le più divertenti erano le marching-band di tipo militare con i suonatori in rigoroso costume scozzese: pipes and drums in kilt che suonavano inni e ballate tradizionali come “Scotland the brave”:
“Drums in my heart are drummin” che ancora oggi, a distanza di molti decenni, mi commuovono.
A dispetto dei continui scrosci di pioggia alternati a ventose apparizioni del sole fu un soggiorno piacevole anche per la compagnia molto allegra di Emilia che si divertiva ad ascoltare i miei sogni che cercavo di ricordare per raccontarglieli al mattino durante il breakfast: il solo pasto decente della giornata.