Pipae, piparum, pipis (terza parte)

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L’anno dopo il soggiorno londinese di studio nella British museum library tornai nelle isole britanniche in auto con Emilia allora diciassettenne, figlia di carissimi amici di famiglia da più generazioni, che me l’avevano affidata perché cominciasse i suoi studi d’inglese, ignorato nel suo corso al Liceo classico di Correggio.
Dovevamo raggiungere Edimburgo per seguire un corso estivo per stranieri. In realtà era un corso di scozzese più che d’inglese, come scoprimmo subito, tenuto da docenti dell’ Università dalla spiccata pronuncia locale che non nuotavano nell’oro, a giudicare dalle giacche rappezzate e consunte di Harris tweed.
I corsisti erano in buona parte adolescenti di mezza Europa, con una prevalenza di scandinavi. Ricordo una ragazza danese che durante il coffe-break fumava la pipa come me, con mia favorevole sorpresa. Quando le dissi che era la prima ragazza con pipa che avessi mai conosciuto, si sorprese. Sosteneva che in Danimarca le fumatrici di pipa erano tutt’altro che rare, anche nella sua famiglia.

Naturalmente la pipa era molto diffusa anche fra i docenti, a differenza di quanto accadeva fra i professori di liceo o universitari, da noi. In tutta la mia carriera scolastica mi capitò d’imbattermi in un solo docente pipafumante: un supplente di latino e greco al liceo, mentre moltissimi fumavano sigarette.
La vicenda più memorabile e piacevole del corso erano le serate organizzate per noi studenti nel Chaplaincy Center: un luogo di ritrovo universitario che sembrava una piccola chiesa protestante vagamente gotica, di quelle in legno fatte in serie; tutte uguali e disseminate nei villaggi scozzesi. In realtà, almeno per quanto riguardava noi corsisti stranieri, non vi si svolgevano attività religiose, ma s’imparavano i balli scozzesi al suono di pipes and drums, secondo la tradizione.
Per un paio di ore almeno, imparate le figure obbligatorie sotto la guida di una insegnante paziente, eravamo liberi di scatenarci in balli tradizionali scozzesi a due, a tre a quattro coppie. Alle fine ero accaldato come dopo una partita di football, ma mi ero divertito molto di più.
La mia passione era l’ eight-some reel, così mi pare si chiamasse un complicato ballo che coinvolgeva in varie figure obbligate quattro ballerine e quattro ballerini.
Quando mi capitava come partner una morettina svizzera del cantone di Coira restavo stupito del suo impeccabile aplomb alla fine delle giravolte scatenate: restava fresca come una rosa.
A volte, alla fine delle danze, si cantava in coro. Ricordo la voce emozionante di una ragazza svedese quando attaccava in assolo “Cumbaya my Lord”. Non era Joan Baez, ma, in quell’ambiente faceva venire i brividi.
Ci ospitava nella sua casa la vedova di un ufficiale che oltre agli ospiti paganti, accudiva anche il vecchio padre vedovo. D’inverno occupavano le tre stanze studenti universitari che d’estate, quando tornavano a casa, venivano rimpiazzati da ragazzi stranieri come noi.
Uno studente di veterinaria che aveva finito e stava per laurearsi si trattenne per qualche giorno mentre eravamo già presenti noi “estivi” . Era un ragazzo cordiale che c’invitò alla festa di laurea e noi, naturalmente, fummo felici di partecipare. La cerimonia si svolgeva all’aperto in modo collettivo. Tutti insieme i laureandi, con toga e tocco presi a nolo, partecipavano alla cerimonia che aveva ai nostri occhi un’aria carnevalesca, se confrontata all’austera discussione individuale della tesi presso l’Alma Mater di cui avevo un ricordo freschissimo.
La padrona di casa era una donna gentile, piuttosto austera, mentre un personaggio cordiale era suo padre con il quale era doveroso trattenersi per un po’ di conversazione alla fine della cena. Era un fumatore di pipa molto esperto che tirava con rilassata metodicità senza mai lasciare spegnere la sua pipa curva mentre conversava con noi.
Una volta per esporci meglio la sua ammirazione per gli antichi romani, di cui elogiava le abitudini alimentari, estrasse la pipa di bocca un po’ troppo allegramente e arpionò la dentiera che volò in mezzo al tavolo già sparecchiato chiudendosi con un rumore secco.
Noi due ragazzi non battemmo ciglio e gli demmo tutto l’agio di raccogliere i denti e continuare il discorso come niente fosse.
Naturalmente durante la passeggiata serale fino ai giardini di Princess Street, commemorammo la scena comica con le dovute risate che avevamo trattenuto con un self-control più British degli stessi britannici che ci sforzavamo di imitare, almeno per quanto riguardava la lingua.
I Princess street gardens sotto l’imponente Edinburgh Castle, si animavano dopo il tramonto specialmente se c’era una banda che suonava su di un palchetto accanto alla grande pista da ballo circolare. Con un sixpence si poteva partecipare al ballo collettivo. Le coppie danzavano balli classici come il waltzer e si muovevano molto compostamente in senso orario senza intralciarsi o urtarsi ruotando come satelliti attorno ad un immaginario pianeta al centro.
La passione per le bande era diffusa a giudicare dal pubblico numeroso che ne ascoltava i concerti, ma di gran lunga le più divertenti erano le marching-band di tipo militare con i suonatori in rigoroso costume scozzese: pipes and drums in kilt che suonavano inni e ballate tradizionali come “Scotland the brave”:
“Drums in my heart are drummin” che ancora oggi, a distanza di molti decenni, mi commuovono.
A dispetto dei continui scrosci di pioggia alternati a ventose apparizioni del sole fu un soggiorno piacevole anche per la compagnia molto allegra di Emilia che si divertiva ad ascoltare i miei sogni che cercavo di ricordare per raccontarglieli al mattino durante il breakfast: il solo pasto decente della giornata.

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