Un imperativo morale: schiacciamo i ragni maligni

mer. 30 luglio 2003

“Ieri e’ stato l’ultimo lunedì di lavori alla Camera dei deputati, prima della pausa estiva e i parlamentari si sono ritrovati a discutere di ragni e scorpioni. All’ordine del giorno c’e’ la conversione in legge di un decreto, che vieta la commercializzazione di ragni nocivi per l’uomo.
Non sono mancate perplessità “trasversali” sulla necessità di disciplinarlo attraverso un decreto, che ha caratteristiche d’urgenza, piuttosto che, per esempio, con un disegno di legge che regolamenti l’intera materia della commercializzazione delle specie esotiche.
Ma tra le fila dell’opposizione gira con insistenza una voce. “Abbiamo letto che il ricorso al decreto e’ stato dettato dalla aracnofobia del Presidente del Consiglio – dice Luigi Meduri della Margherita”

Questo ho ricavato da Il Nuovo, (http://www.ilnuovo.it/nuovo/foglia/0,1007,185056,00.html ) ma non posso esimermi dal pensare che, anche in questo caso, siano solo gl’interessi generali del paese a muovere l’attività legislativa d’urgenza della maggioranza, se non un vero e proprio imperativo morale ineludibile: schiacciamo i ragni maligni senza pieta’ e dilazioni, prima che sia troppo tardi e ci privino della nostra libertà.

Chi non sbadiglia in compagnia è un ladro e una spia

gio. 31 luglio 2003

uahh!Chi non sbadiglia in compagnia è un ladro e una spia, potremmo dire parafrasando la nota frase che si usava da bambini quando, durante una scampagnata, ci si ritrovava a fare pipì tutti insieme ai margini di un campo di frumentone.

Benché alcuni studiosi tendano ad interpretare lo sbadiglio come una forma di lotta contro il sonno o un atto involontario per tenere desto il cervello, altri si soffermano soprattutto sulla caratteristica di ritrasmettersi rapidamente a tutti i componenti di un gruppo.

vedi: http://www.ilnuovo.it/nuovo/foglia/0,1007,185093,00.html

E’ noto che lo sbadiglio si attacca facilmente e secondo taluni studiosi gli immuni al contagio sarebbero individui con scarsa capacità di mettersi nei panni altrui.

Infatti, sbadigliare per imitazione o contagio potrebbe derivare dalla necessità dei nostri antenati di coordinare i periodi di attività e di riposo. “E’ importante che tutti i membri di un gruppo – sostiene lo studioso Ronald Baenninger, esperto di ricerche sugli sbadigli alla Temple University di Philadelphia – siano pronti a fare la stessa cosa in maniera contemporanea”.

Insomma, sbadigliare in compagnia è una prova di empatia verso i nostri compagni, non vergognamocene, quindi, e non cerchiamo di trattenerci, sbadigliando dimostriamo semplicemente la nostra adesione involontaria al gruppo.

Boccioli di gelsomino e rose alabastrine

ven. 01 agosto 2003

La commovente resistenza delle decine di boccioli di gelsomino che spuntano da una ciotola di ceramica ischitana fra la verzura impalpabile di contorno e a coronamento di alcune rose bianche quasi alabastrine, residuo un recentissimo matrimonio estivo, mi ha riportato ad un’estate lontanissima ormai, quando vissi per un mese in una villa sulla Nomentana aviluppata dai gelsomini.

Non c’erano gelsomini profumati nelle case della mia infanzia nella grande pianura nebbiosa: il clima rigido degli inverni nevosi li avrebbe uccisi, così rimasi particolarmente sorpreso dal profumo festoso che avvolgeva la casa intera, affacciata sul larghissimo viale di platani che da Porta Pia si spinge verso la campagna romana.

Non ricordo quasi nulla delle stanze al pianterreno affacciate sul giardino, se non forse gli accessori pomposi del grande bagno di maiolica finemente screpolata per l’età vetusta. In un angolo del giardino, che circondava il retro della villa, c’era una vasca ovale soffocata dall’edera in cui nuotavano pesci rossi e, forse, ranocchi. L’estate precoce imponeva le finestre aperte anche di notte e lasciava passare il canto dei grilli ed il profumo quasi assordante dei gelsomini bianchi.

Non ricordo quasi nient’altro di quella parentesi romana, se non un bambino un po’ petulante che parlava preferibilmente persiano, con il qual giocavo passando dal buco nella siepe che si apriva sul vasto giardino dell’ambasciata afgana. Era il figlio dell’ambasciatore di quel paese remoto: un regno ignoto ai confini del mondo che non aveva alcuna triste notorietà, a quel tempo.

Le tende gettavano un’ombra rattrappita sulla sabbia dorata

dom. 03 agosto 2003

In un giorno feriale all’inizio di luglio andavamo al mare, mia zia I. ed io. Ci accompagnava con la sua spaziosa topolino giardinetta il signor F. che normalmente usava l’auto per il trasposrto di grossi mazzi di paglie di pioppo che servivano alla manifattura di trecce, esportate in tutto il mondo sotto forma di cappelli estivi o di robuste sporte per fare la spesa, leggere, capaci e durevoli antenate delle sportine di plastica. Si partiva la mattina ad un’ora confortevole con una piccola valigia, una in due.
Dopo una ventina di kilometri ombreggiati da pioppi cipressini si raggiungeva la via Emilia, poi sempre dritto, rigorosamente controsole fino al mare, attraversando il centro di tutte le città e di tutti i paesi, come dio comanda. Circonvallazioni, autostrade, svincoli, sensi vietati e altre astruserie non c’erano ancora ed il pigro traffico di allora non ne sentiva alcun bisogno. Le biciclette, numerose, e i carri agricoli condividevano la carreggiata con i mezzi a motore: poche auto e ancor meno camion, soprattutto Dodge e Bedford, residuati di guerra convertiti al trasporto di maiali ed altre virtuose merci di pace.
Il nostro pilota non era certo Nuvolari e la topolino non era una Ferrari, ma per l’ora di pranzo si era sempre tranquillamente pronti a sedersi a tavola, dopo i convenevoli d’obbligo con la matriarca che gestiva l’albergo insieme con le sue quattro figlie, il figlio sinistrato ed il pleonastico “vecchio”, assaggiatore di Sangiovese a tempo pieno.
La sala da pranzo era fresca, spaziosa e i tavoli grandi e ben distanziati. La cucina, tradizionale e senza fronzoli, meritava il consenso senza riserve di un pubblico indigeno competente, abituato a mangiare bene a casa propria. I pochi svizzeri e tedeschi, avanguardie dei futuri eserciti di turisti affezionati, si leccavano i baffi ed i fiaschi impagliati avevano il posto d’onore al centro dei loro tavoli. Dalle ampie finestre, sotto la luce abbacinante del meriggio, si vedevano le alte dune popolate di ginestre, unico schermo alla vista del mare che si scorgeva brillare solo attraverso pochi varchi.
Le tende di ruvida tela, ornata con i tradizionali decori ruggine di Romagna, ben distanziate lungo una sola fila, gettavano un’ombra rattrappita sulla sabbia dorata, lambita dal mare verde e trasparente, deserto a quell’ora. Rare erano le paranze all’ancora nell’acqua bassa, con le larghe vele triangolari dipinte di rosso, di giallo e di verde a formare disegni elementari come quelli dei bambini.

Le dune popolate solo da tamerici, in attesa che la luna…

lun 04 agosto 2003

Le creme da spalmare sulla pelle credo le avessero già inventate. Ricordo distintamente l’immagine di un tubetto giallo che conteneva un gel trasparente da spalmare con parsimonia sulle mani screpolate per il lavoro o per il freddo invernale, ma a noi bambini, anche ai rossini con la pelle lattea, nessuno si sognava di proteggere la pelle con una crema, quando andavamo in spiaggia d’estate.
Non parlo di prodotti specifici a protezione graduata, ma non ci veniva spalmata neanche un’universale nivea sulle spalle: le prime a sbucciarsi come fichi d’india.
Dopo le prime roventi partite a pallone sulle dune, in cui le magliette servivano per delimitare in modo pressoché simbolico la larghezza delle due porte, il solo sollievo che avrebbero ricevuto al ritorno in albergo le schiene rosse come pomidoro era una delicata aspersione di borotalco, in attesa di spellarsi completamente a larghi lembi nel giro di tre giorni.
La faccenda veniva vissuta come un evento ineluttabile, peraltro, e la sola precauzione, ad ustione avvenuta, era il materno consiglio di restare il più possibile all’ombra e tenere sempre la camicia, anche in mare, durante il bagno.
Non so come se la cavassero i bambini che andavano in colonia, guardati a vista da giovani maestre disperate per la loro vitalità incontenibile. Io li vedevo solo la sera, quando in fila per due, facevano la passeggiatina serale dopo cena, mentre noialtri cani sciolti, affidati ad una madre, una nonna od una zia aspettavamo ancora di andare a tavola ciondolando senza scopo per il giardino dell’albergo.
Cenavano molto presto, ad orari ospedalieri, e durante la passeggiatina in fila trascinavano gli zoccoli di legno e avevano l’aria stremata e un po’ assente di chi sta subendo un trattamento sgradito. Stranamente, nonostante il crepuscolo avanzato, mentre l’ombra serale ormai prevaleva sugli ultimi riflessi morenti di un sole tramontato, vestivano il cappellino tondo con la tesa spiovente e stropicciata per gl’inevitabili calpestamenti e angherie subiti e inferti senza pietà.
A quel tempo non avevo ancora maturato la fisima consapevole di chi compiere passeggiate senza meta di forma circolare o, massima concessione, di Q, ma avvertivo un certo disagio nel vederli percorrere la strada ghiaosa prima in avanti poi a ritroso sui loro stessi passi. Si trattava di un breve cul di sacco che, partendo dall’unico crocicchio del paese, terminava in uno spazio selvaggio di canne palustri fino alla riva del Rubicone.
L’unica meta interessante era, a metà strada, una fontanella sulfurea che insieme con l’acqua disgustosina, emanava vapori che, con un po’ di fortuna, si potevano incendiare e davano vita ad una luce blustra con bei riflessi verdi. Se le brezze serali erano deboli poteva mantenersi viva per un po’, dando vita ad un fenomeno curioso, se non proprio misterioso.
Raramente si potevano ascoltare i frangenti sui grossi bastioni di cemento armato, inutile baluardo anticarro eratto dai tedeschi su larghi tratti del bagnasciuga. Benché fossero vicini, erano invisibili dalla strada e le dune, a quell’ora, tornavano ad essere popolate soltanto dalle tamerici, in attesa che la luna desse vita ad ombre mutevoli.

Era l’ora dei racconti e delle favole

ven. 08 agosto 2003

Forse perché lei stessa preferiva restare in un angolo fresco del giardino a giocare a canasta o a canastone, non mi costrinse mai a salire in camera per il riposino dopo pranzo. Per fortuna altri bambini godevano dello stesso mio privilegio, così ci si trovava ad avere un non-tempo regalato da impiegare come si voleva, a patto di non disturbare gli adulti dormienti dietro le imposte socchiuse o i più attivi giocatori di carte .
Lo spazio disponibile era veramente molto nel largo cortile ombroso popolato di platani, olmi e ippocastani che si apriva fra i tavolini esterni del bar, fino al basso edificio di servizio che delimitava, dal lato opposto all’albergo, la larga pista da ballo in cemento, vuota durante il giorno, quando gli strumenti sonnecchiavano nelle custodie, i suonatori facevano il loro vero mestiere e i ballerini serali, nella loro tenuta diurna da villeggianti, erano sparpagliati ovunque ci fosse un’ombra.
Dopo la mattinata in ispiaggia, le lunghe nuotate nell’acqua verde ed il pasto abbondante nella vasta sala fresca, veniva spontaneo parlare a bassa voce e stare tranquilli ad aspettare che il sole cominciasse a gettare ombre più lunghe.
Era l’ora dei racconti e delle favole, non che se ne percepisse nettamente la distinzione. Chi aveva qualcosa da raccontare lo faceva come meglio sapeva e con incerto successo, ma senza rischiare mai di destare alcuna ostilità o fastidio. C’era, però, una bambina di Reggio Emilia, con la sua parlata lenta e cantilenante, che, invece, incantava tutti. Se ne aveva voglia e cominciava a raccontare, tutti noi le stavamo intorno a cerchio ad ascoltarla.
Curiosamente non ricordo nulla di quei racconti infantili se non la capacità magnetica della piccola Sherazade emiliana di destare la nostra attenzioe e indurci ad un ascolto passivo, dolce e gradito come il sonno quando si è stanchi.
La sera quando al suono dell’orchestrina si ballavano walzer, polche e mazurche nella più allegra promisquità di adulti e bambini e la raspa del Paranà scatenava noi piccoli in piroette improvvisate, la magia svaniva e anche lei tornava ad essere una bambina qualunque: una bella moretta con le trecce e un bel paio di zampette robuste adatte per saltare e ballare.

bassa marea

Carlo? Un mezzo analfabeta

sab. 09 agosto 2003

  • – …lo sapevi che Carlo Magno era mezzo analfabeta?
  • in parte
  • come? o lo sapevi o non lo sapevi. Non potevi saperlo in parte.
  • hai detto che era MEZZO analfabeta: l’avevo sentito dire anche io, ma non sapevo quale delle due metà fosse afflitta o benedetta da analfabetismo. Per esempio era la metà di sotto, quella destra, quella di dietro? Ammtterai che un uomo si può dividerlo a metà in tante maniere, specialmente se è MAGNO, cioè grande.
  • io intendevo dire in parte
  • è proprio quello che ho detto io alla seconda riga, ma non ti andava bene
  • va bene. Allora diciamo che non sapeva scrivere…
  • allora era mezzo analfabeta perché non sapeva scrivere, ma sapeva leggere. Non ci avevo pensato, anche se in realtà, pensandoci, è la divisione a metà più sensata
  • non so
  • che cosa? se sapeva leggere o se è la divisione più sensata? Perché ti sembra più plausibile che fosse analfabeta solo dalla vita in giù?
  • guarda che non sarebbe poi così strano. Cervello occhi e mano sono tutti nella metà alta
  • denario carolingioanche il cuore, se vogliamo. Secondo te, allora, non sarebbero semianalfabeti solo gli scrittori viscerali
  • perché a te piacciono, per caso?
  • figurati, a me picciono i gialli
  • in Inghilterra non li chiamano così, e pensare che dovrebbero intendersene
  • infatti, ma è solo un questione di colori. Per esempio chiamano blu i pornazzi
  • … che noi chiamiamo a luci rosse, se sono film e non libri
  • e poi dicono che tutto il mondo è paese. Se ci dividiamo su faccende di base come queste figurati sul resto come le leggi, usi&costumi: una babele
  • Carlo Magno, poveretto, aveva tentato di unificare l’Europa INTERA
  • … ma cosa si poteva pretendere da un MEZZO analfabeta

Era una legione straniera di bottigliette di ricupero di tutte le misure e fogge

lun. 11 agosto 2003

Senza perdere tempo in saluti e salamelecchi, prendevo il primo treno utile dopo il suono della campanella più attesa dell’anno: quella che segnava la fine della lectio brevis dell’ultimo giorno di scuola. Né allora, né mai più, sono stato rallentato o inciampato dai bagagli: non ho bisogno di quasi nulla. Quando abitavo a Roma, per “tornare a casa” occorrevano più di cinque ore sul direttissimo per Milano, scandite da numerose fermate e completate da un breve tratto finale in littorina, ma alla fine del viaggio cominciava la vera libertà delle vacanze.
La bici oliata e lustrata da Luisa, una Wander artigianale costruita quasi su misura per me, mi aspettava pronta sulle ruote già gonfie, dopo il lungo letargo invernale sottosopra, appoggiata su sella e manubrio e coperta da sacchi di juta. Invariabilmente era in attesa dentro la cantina più piccola, quella delle botti dell’aceto.
In casa nostra non si faceva l’aceto balsamico dolce tradizionale, ora celebrato in tutto il mondo, ma quello forte di vino bianco, altrettanto tradizionale e anche migliore per i miei gusti, che assumeva il profumo indimenticabile e il colore rosso chiaro alla fine dell’invecchiamento, quando era pronto per condire l’insalata o arrossare il sale grosso sul fondo della ciotola per il pinzimonio.
Sulla parete di fronte alla larga porta c’era uno scaffale robusto e vecchio come il cucco che ospitava la provviste di lambrusco, imbottigliato in spesse e pesanti bottiglie nere fatte a mano, passate in eredità da una generazione all’altra.
Sulla parete di sinistra, sostenute a tre spanne da terra da robusti cavalletti, c’erano le botti di misura decrescente per l’invecchiamento dell’aceto, mentre sulla parete della porta c’era un piccolo scaffale, abbastanza sgangherato che ospitava l’aceto, già pronto per l’uso.
Era una legione straniera di bottigliette di ricupero di tutte le misure e fogge che non avrebbero mai raggiunto l’onore della tavola ma, al culmine della loro ascesa, si sarebbero fermate alla dispensa della grande cucina per riempire le ampolle. Anche i tappi che racchiudevano i colli eterogenei erano turaccioli di ricupero tutt’altro che ermetici, adattati rusticamente e sommariamente alla misura giusta e alla forma di tronchi di cono con pochi colpi di coltello.
Contrariamente a quelli del vino, costosi manufatti regolarissimi, unti di olio di vasellina e oggetto di grandi attenzioni fino al loro impiego, durante il rito dell’imbottigliamento, i tappini dell’aceto avevano la sola funzione di evitare il rovesciamento accidentale del liquido, ma nessuna vera tenuta era pretesa da loro, giacché l’ingresso dell’aria non avrebbe portato che alla continuazione del processo di acetificazione, cominciato nelle botticelle di rovere e artefice di tanta bontà

Stiamo freschi!

mer. 13 agosto 2003

Un’altra giornata bollente su gran parte dell’Europa centro-occidentale. Parigi “finalmente” tocca i 40 gradi; infatti mentre si rialzano le temperature anche in Germania, quelle più elevate, ancora una volta, si sono registrate in Francia, Spagna e Portogallo.

Alcuni record:
quello tedesco stabilito il giorno 9 agosto da Roth con +40.4°C;
quello britannico: il giorno 10 agosto stabilito da Gravesend, nel Kent, con +38.1°C che ha battuto di poco London Heatrow che poche ore prima aveva raggiunto i +37.9°C.
L’11 agosto fanno notizia i +40°C tondi di Parigi Orly , nuovo record per la stazione aeroportuale posta nell’hinterland meridionale della capitale francese.
Temperature elevatissime sulla fresca costa atlantica spagnola e sul nord del Portogallo, anche se Cordoba in Andalusia mantiene alta la sua fama con +42.6°C. Qui tuttavia le anomalie sono inferiori, infatti temperature di 35°C rappresentano la norma stagionale.
Tornando a nord notiamo che tutta la regione a cavallo tra Belgio e Olanda meridionali, Francia orientale e Germania occidentale sta vivendo un’anomalia climatica di oltre 10°C (considerando le temperature massime) che dura ormai da diversi giorni!
Insomma, si direbbe che ci troviamo ad osservare un’Europa unita e concorde, una volta tanto, ma è duro ammettere che l’entusiasmo per questo attesissimo evento è modesto, in questo caso.

Piazza pulita!

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Le notizie meteo sono tratte dall’ottimo http://www.meteogiornale.it/read.php?id=6266 .
La mia rinfrescante immagine digitale è stata presa lo scorso Novembre in piazza Maggiore a Bologna.

Cicciones de todo el mundo…

gio. 14 agosto 2003

el suenoNEW YORK – I ricercatori del Baylor College of Medicine di Houston hanno trovato l’origine di cuscinetti e pieghe adipose. La scoperta, pubblicata sulla rivista dell’ Accademia americana delle scienze , Pnas, apre la via alla possibilità di mettere a punto farmaci di combattere sia l’obesità sia le altre malattie come il diabete. Stando alla ricerca, il gene controlla l’attività dell’enzima chiamato ACC2 (acetil-CoA-carbossilasi-2) che immagazzina i grassi…i ricercatori hanno concluso così che l’enzima ACC2 non soltanto svolge un ruolo chiave nella comparsa di obesità e diabete, ma potrebbe diventare un bersaglio di futuri farmaci in grado di controllare le capacità dell’organismo di bruciare i grassi.

Stormi di ricercatori rintanati in asettici laboratori di “grassissime” case farmaceutiche saranno già scattati nella corsa a chi arriva primo nel brevettare una nuova pillola miliardaria che inibisca la produzione di ACC2, permettendo a tutti noi di mangiare le nostre schifezze preferite senza cambiare la taglia superslim dei nostri abiti.

Nel frattempo in un angolo, derelitto e non visto, il fegato ingrossato piangerà calde lacrime, ma nessuno gli baderà troppo, salvo una squadra di ricercatori intenti ad inventare una pillola miracolosa per rimettere in forma fegati stressati.