Le dune popolate solo da tamerici, in attesa che la luna…

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lun 04 agosto 2003

Le creme da spalmare sulla pelle credo le avessero già inventate. Ricordo distintamente l’immagine di un tubetto giallo che conteneva un gel trasparente da spalmare con parsimonia sulle mani screpolate per il lavoro o per il freddo invernale, ma a noi bambini, anche ai rossini con la pelle lattea, nessuno si sognava di proteggere la pelle con una crema, quando andavamo in spiaggia d’estate.
Non parlo di prodotti specifici a protezione graduata, ma non ci veniva spalmata neanche un’universale nivea sulle spalle: le prime a sbucciarsi come fichi d’india.
Dopo le prime roventi partite a pallone sulle dune, in cui le magliette servivano per delimitare in modo pressoché simbolico la larghezza delle due porte, il solo sollievo che avrebbero ricevuto al ritorno in albergo le schiene rosse come pomidoro era una delicata aspersione di borotalco, in attesa di spellarsi completamente a larghi lembi nel giro di tre giorni.
La faccenda veniva vissuta come un evento ineluttabile, peraltro, e la sola precauzione, ad ustione avvenuta, era il materno consiglio di restare il più possibile all’ombra e tenere sempre la camicia, anche in mare, durante il bagno.
Non so come se la cavassero i bambini che andavano in colonia, guardati a vista da giovani maestre disperate per la loro vitalità incontenibile. Io li vedevo solo la sera, quando in fila per due, facevano la passeggiatina serale dopo cena, mentre noialtri cani sciolti, affidati ad una madre, una nonna od una zia aspettavamo ancora di andare a tavola ciondolando senza scopo per il giardino dell’albergo.
Cenavano molto presto, ad orari ospedalieri, e durante la passeggiatina in fila trascinavano gli zoccoli di legno e avevano l’aria stremata e un po’ assente di chi sta subendo un trattamento sgradito. Stranamente, nonostante il crepuscolo avanzato, mentre l’ombra serale ormai prevaleva sugli ultimi riflessi morenti di un sole tramontato, vestivano il cappellino tondo con la tesa spiovente e stropicciata per gl’inevitabili calpestamenti e angherie subiti e inferti senza pietà.
A quel tempo non avevo ancora maturato la fisima consapevole di chi compiere passeggiate senza meta di forma circolare o, massima concessione, di Q, ma avvertivo un certo disagio nel vederli percorrere la strada ghiaosa prima in avanti poi a ritroso sui loro stessi passi. Si trattava di un breve cul di sacco che, partendo dall’unico crocicchio del paese, terminava in uno spazio selvaggio di canne palustri fino alla riva del Rubicone.
L’unica meta interessante era, a metà strada, una fontanella sulfurea che insieme con l’acqua disgustosina, emanava vapori che, con un po’ di fortuna, si potevano incendiare e davano vita ad una luce blustra con bei riflessi verdi. Se le brezze serali erano deboli poteva mantenersi viva per un po’, dando vita ad un fenomeno curioso, se non proprio misterioso.
Raramente si potevano ascoltare i frangenti sui grossi bastioni di cemento armato, inutile baluardo anticarro eratto dai tedeschi su larghi tratti del bagnasciuga. Benché fossero vicini, erano invisibili dalla strada e le dune, a quell’ora, tornavano ad essere popolate soltanto dalle tamerici, in attesa che la luna desse vita ad ombre mutevoli.

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