Era una legione straniera di bottigliette di ricupero di tutte le misure e fogge

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lun. 11 agosto 2003

Senza perdere tempo in saluti e salamelecchi, prendevo il primo treno utile dopo il suono della campanella più attesa dell’anno: quella che segnava la fine della lectio brevis dell’ultimo giorno di scuola. Né allora, né mai più, sono stato rallentato o inciampato dai bagagli: non ho bisogno di quasi nulla. Quando abitavo a Roma, per “tornare a casa” occorrevano più di cinque ore sul direttissimo per Milano, scandite da numerose fermate e completate da un breve tratto finale in littorina, ma alla fine del viaggio cominciava la vera libertà delle vacanze.
La bici oliata e lustrata da Luisa, una Wander artigianale costruita quasi su misura per me, mi aspettava pronta sulle ruote già gonfie, dopo il lungo letargo invernale sottosopra, appoggiata su sella e manubrio e coperta da sacchi di juta. Invariabilmente era in attesa dentro la cantina più piccola, quella delle botti dell’aceto.
In casa nostra non si faceva l’aceto balsamico dolce tradizionale, ora celebrato in tutto il mondo, ma quello forte di vino bianco, altrettanto tradizionale e anche migliore per i miei gusti, che assumeva il profumo indimenticabile e il colore rosso chiaro alla fine dell’invecchiamento, quando era pronto per condire l’insalata o arrossare il sale grosso sul fondo della ciotola per il pinzimonio.
Sulla parete di fronte alla larga porta c’era uno scaffale robusto e vecchio come il cucco che ospitava la provviste di lambrusco, imbottigliato in spesse e pesanti bottiglie nere fatte a mano, passate in eredità da una generazione all’altra.
Sulla parete di sinistra, sostenute a tre spanne da terra da robusti cavalletti, c’erano le botti di misura decrescente per l’invecchiamento dell’aceto, mentre sulla parete della porta c’era un piccolo scaffale, abbastanza sgangherato che ospitava l’aceto, già pronto per l’uso.
Era una legione straniera di bottigliette di ricupero di tutte le misure e fogge che non avrebbero mai raggiunto l’onore della tavola ma, al culmine della loro ascesa, si sarebbero fermate alla dispensa della grande cucina per riempire le ampolle. Anche i tappi che racchiudevano i colli eterogenei erano turaccioli di ricupero tutt’altro che ermetici, adattati rusticamente e sommariamente alla misura giusta e alla forma di tronchi di cono con pochi colpi di coltello.
Contrariamente a quelli del vino, costosi manufatti regolarissimi, unti di olio di vasellina e oggetto di grandi attenzioni fino al loro impiego, durante il rito dell’imbottigliamento, i tappini dell’aceto avevano la sola funzione di evitare il rovesciamento accidentale del liquido, ma nessuna vera tenuta era pretesa da loro, giacché l’ingresso dell’aria non avrebbe portato che alla continuazione del processo di acetificazione, cominciato nelle botticelle di rovere e artefice di tanta bontà

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