Cartongesso

mer. 16 aprile 2008

arabia– … carbon gesso?
– No cartongesso, con il T, come cartone
– Ah, col T, avevo capito che fosse col B come Arabia.
– Cosa c’entra l’Arabia col cartongesso?
– Se non lo sai tu, io non l’avevo mai sentito nominare prima. E a cosa servirebbe, poi, questo cartongesso, fuori dall’Arabia?
– Per fare i muri, principalmente.
– E secondariamente?
– Certe cose hanno solo un uso principale, come il sapone per lavare.
– Mai dato il sapone a un cassetto scorbutico per farlo scorrere meglio?
– Hai ragione, però non ho mai sentito di qualcuno che, invece, ci abbia messo il cartongesso, anche se teoricamente…
– … o ipoteticamente…
– Sì anche ipoteticamente. Non si può mai dire con questi materiali nuovi. Magari scaldato o sbriciolato, chissà che proprietà ha.
– Però sbriciolare un muro per far scorrere un cassetto non mi sembra una gran mossa, neanche ipoteticamente.
– Infatti; praticamente non lo fanno mai, almeno qui da noi.
– E in Arabia?
– Be’ loro hanno già la sabbia pronta, mi meraviglierebbe che si mettessero a sbriciolare il cartongesso con tutta la grazia di dio che hanno sotto i piedi.
– Dici che adoperino la sabbia per far scorrere i cassetti?
– Non credo, sono nomadi; i cassetti e soprattutto i cassettoni sono poco adatti da caricare sui cammelli.
– Io non ci sono mai stato, ma su questo sono d’accordo con te.
– Perché su cosa non sei d’accordo, invece.
– Su niente teoricamente, ma in pratica potrebbe presentarsi un’occasione per non essere del tutto d’accordo, un giorno o l’altro.
indovinoFammi indovino che ti farò ricco.
– Lo farei subito se fossi capace. Credi che non lo farei? Poi converrebbe anche a me, per diventare subito ricco.
– E’ solo un modo dire.
– Insomma se ti facessi indovino tu non mi faresti neanche ricco? Non posso crederlo.
– Ti farei ricco di sicuro. Te l’ho promesso e io sono uno di parola.
– Anche questo è solo un modo di dire, allora.
– No, no è un modo di fare. Dì di no. Ti ho mai mangiato la parola, che tu sappia?
– Che io sappia no, ma non ti posso mica stare dietro col fiato sul collo , giorno e notte, per vedere se sei di parola. Sarebbe indelicato.
– Meglio soli che male accompagnati, ma chi trova un amico trova un tesoro.
– Specialmente se il suo amico è un indovino che lo farà ricco.
– Sì, va bene, però smettiamola di parlare sempre di soldi.

Paloma blanca

mar. 15 aprile 2008

Una paloma blanca como la nivea”
“Nieve, vorrai dire.”
“E’ più blanca della nivea, possibile?”
“No, ma è bella blanca, come la nostra neve”
“Non tanto blanca, allora”
“E’ spagnolo”
“… avessi detto esquimese; gli spagnoli sono come noi: mangia pane, bevi vino”
“Questo è vero, però la Spagna è più vuota di noi”
“Ti piace il pieno?”
“E’ il fitto che non mi piace”
“Questo è vero, eppure c’è un mucchio di gente che lo cerca; pensa a Rimini”
“…s’un si pigia, un ci si diverte”
“L’hai sentito a Rimini?”
“No a Siena”
“Hai cambiato argomento, allora”
“Hai ragione, m’hai fatto venire in mente il Palio”
“Bellissimo, per andarci una volta m’è toccato di rubarmi la macchina”
“La tua?”
“Sì, m’ero scordato le chiavi in tenda all’isola d’Elba e la macchina era a Piombino”
“E come hai fatto, allora?”
“Con un coltello esquimese col manico di betulla”
“In un modo o nell’altro gli esquimesi c’entrano sempre”
“E’ vero. Chissà come fanno, che sono così pochi?”
“Pochissimi, la seconda volta che sono stato dalle loro parti non se ne vedeva uno, poi d’improvviso ne ho visti sei o sette compresi dei bambini, sembravano zingari, dai vestiti e dalla confusione che facevano”
“Che non fossero proprio zingari, di quelli ce n’è ancora”
“L’ho pensato anche io, ma eravamo nella Lapland”
“Allora erano Lappòni”
“Credevo che si dicesse Làpponi”
“T’è capitato di ascoltare quei sistemi di lettura computerizzata? Sbagliano tutti gli accenti”
“Come gli stranieri; magari fanno un bel discorso logico, proprio come noi, ma sbagliano gli accenti.”
“E’ il particolare che ti frega, diceva sempre mio padre”
“E’ vero, come in quei film di spionaggio dove va tutto liscio, anche delle faccende impossibili, poi, per una sciocchezza, li scoprono e li mandano in Siberia”
“Quella sì che è bella vuota. C’è un buco immenso, un cratere, ma non di un vulcano, di un meteorite, e non se n’erano nemmeno accorti”
“Ma pensa, da noi se il Vesuvio tornasse a fare il matto, altro che Pompei ed Ercolano stavolta”
“E’ vero, lì sì che c’è un bel fitto, a proposito”
“Ormai non ci si passa più. Se posso, Napoli la schivo. Preferisco andar giù per l’Adriatico”
“Bello, specialmente d’inverno, quando torna verde e limpido anche dalla nostra parte, come in Dalmazia”
“Hai visto quanti zingari?”
“… e tutti con dei macchinoni lunghi da qui a là. Dove li prenderanno poi…”
“Per strada: mors tua, vita mea”
“Mah? Una volta facevano i calderai e i mercanti di cavalli: andavano in giro per le campagne a rappezzare e stagnare caldaie e paioli di rame, adesso la polenta si fa in cinque minuti nella pentola a pressione”
“E viene buona”

Pausa pranzo

dom. 13 aprile 2008
  • bicchieriScrivere una lettera che preannunci l’intervista
  • Chiarire bene che lo scopo è fare un’indagine
  • Un intervistatore solo. L’altro, eventuale, assiste in rigoroso silenzio
  • Cominciare l’intervista a registratore spento e assicurare
    l’anonimato prima di accenderlo
  • 45-75 min. NO MORE

 

La pizza, bella al momento dell’atterraggio sul tavolo, era stata deludente; sopraffatta dal gusto di un prosciutto anemico e mal disposto restava a ingombrare metà del piatto. Sboconcellata, fredda, quasi repellente. Ci sarebbe voluto un ragazzo in gita scolastica per arrivarci in fondo.
Dietro la grande vetrina di plexiglass con le fiamminghe di melanzane, pomidoro gratin e asparagi fuori stagione galleggia la nuova barista fra bottiglie e bicchieri appesi a testa in giù come sulle navi. Si muove come una sirena a mezzobusto, asciugando e lucidando con un tovagliolo verde i bicchieri. Quello del nocino, sul tavolo, è ormai vuoto. E’ quasi efebica, ma femminile nelle movenze. Sorride fra sé. A cosa pensa? E’ giovanissima, pallida, con i capelli troppo neri. L’ombelico, a tratti scoperto dalla maglietta bianca, sottile e scollata, distrae lo sguardo dai piccoli seni aggressivi. Il flou dei vetri di plastica che la separano dalla sala non giova ai suoi lineamenti giovanili. Quasi sommersa dal brusio degli avventori, una radio lontana parla fra rumori spaziali o da flipper. L’ascolta solo lei, forse.
Al tavolo di fronte, bancari in uniforme grigia si attardano in pettegolezzi di lavoro sovrastati da pennacchi vegetali dai colori improbabili a lambire il soffitto e da altrettanto improbabili trofei di pesca fra anticaglie da rigattiere che ostentano una polvere secolare. “La quattrostagioni? Buon appetito.” Il cameriere sardo in camicia bianca, magro oltre ogni moda, fruscia fra i tavoli al rimorchio di una cravatta nera di lutti dimenticati.
I due fratelli gestori rimpallano con alterna disinvoltura la loro euforica pinguedine napoletana fra gli angusti passaggi. Una fontanella a fungo perpetua la sua cascata sghemba sui pesciolini rossi, indifferenti al tesoro di monetine portafortuna sul fondo della vasca.
La pipa tira bene. Fuori dai vetri una mandria di motorini allineati al freddo attende il ritorno del padrone. Sintomi e cascami del Natale incombente assediano ogni angolo risparmiato dal traffico. Baracche invereconde sotto ogni arco di portico di fronte alle vetrine più eleganti scoraggiano qualsiasi velleità di passeggiata. “Post prandium, lento pede…”, ma non è proprio il caso. E’ troppo presto per rincasare e sfuggire al calpestio incessante dei compratori di doni e al ruggito rauco degli autobus.
Non resta che riparare di nuovo al secondo piano nell’ufficio vuoto e quasi buio dove veglia il computer in attesa. Un colpetto sul mouse e lo schermo si rianima dalla pausa-pranzo: “Defrag completato”.

Santarcangelo di Romagna

mar. 08 aprile 2008

Come scriveva Cesare Clementini, storico riminese del 1600: “E’ situato S. Arcangelo distante da Rimino sette miglia, sopra un vago e dilettevole colle di quelli che confinano coll’Appennino e d’ogni intorno scuopre città, ville, castella, monti, campagne, mare e fiumi…” ed è così ancora oggi, anche se la presenza di auto parcheggiate nelle strette vie del borgo antico adagiato sul colle Giove è piuttosto spoetizzante e diventa una vera maledizione per il fotografo in cerca di scorci caratteristici.

Santarcangelo di Romagna

Sabato scorso ci siamo tornati a distanza di alcuni anni dal’ultima visita e il simpatico ricordo che ne conservavamo è stato confermato pienamente. In una bella giornata fresca fuori stagione ci siamo ritrovati a camminare piacevolmente quasi da soli per le stradine del borgo che, per fortuna, non è stato sanmarinizzato dal turismo di massa, ma è abitato normalmente da persone che hanno l’aria di viverci bene e dimostrano cura per i fiori e per la pulizia delle strade selciate.

Deludente è il castello, aperto alla visita di pochissime stanze ammobiliate un solo fine settimana al mese. A quanto ci hanno detto è proprietà di un ramo napoletano dei principi Colonna che vive a Posillipo e poco si cura del castello, dopo avere ottenuto fondi europei per restaurarlo. Peccato.

Cordiale, invece, l’accoglienza alla pro loco dove ci hanno fornito indicazioni utili e una buona piantina del borgo antico. La parte moderna, ai piedi del colle non è né meglio né peggio di altre cittadine della zona a parte la simpatica fioritura d’insegne, di lapidi e mattonelle con scritte e disegni spiritosi sulla vita del paese, non la solita malinconica lapide in versi ai caduti di tutte le guerre oppure il bollettino della vittoria del generale Armando Diaz, per intenderci.

Nell’album di foto scattate durante la passeggiata ce ne sono alcune fra le più divertenti, per vedere l’album clicca qui o sulla foto.

Castelvetro di Modena

mer. 02 aprile 2008
Una settimana fa, al ritorno da un blitz a Fiorano per una incombenza pratica, abbiamo deciso di tornare a casa per stradine di collina prive di traffico e ricche di curve e di scorci inattesi.
L’album di foto è una raccolta d’immagini scattate dalla stretta strada che porta dal fondovalle al piccolo santuario della Madonna di Puianello e, nuovamente, giù fino a Castelvetro: un piccolo centro della collina modenese che ha saputo attuare un gradevole restauro conservativo.

 

Castelvetro - Modena

Io ricordavo Castelvetro di Modena com’era nel ‘966 quando dovevo raggiungerlo quotidianamente in auto da Bologna, anche dopo l’alluvione del 4 novembre che abbatté i ponti di Spilamberto e Vignola sul Panaro. Tutti la ricordano per i danni molto più clamorosi dell’Arno a Firenze.
Era un paese tranquillo con municipio, chiesa, scuole, caffè, sali&tabacchi e un barbiere con cui giocare a scacchi. Quell’anno, la scuola media non aveva aule a sufficienza per i ragazzini del paese e di un vasto circondario, così a me, giovanissimo supplente annuale, toccò la fortuna di un aula ricavata al pianterreno di palazzo Rangoni, di fronte alla chiesa parrocchiale a cui apparteneva. Sulle pareti solo il ritratto incorniciato del vescovo di Modena e, per riscaldarci, una poderosa stufa a legna Becchi con i regolamentari cassettoni ed un lunghissimo tubo precariamente fissato al soffitto.
La porta di accesso all’aula, aperta direttamente sulla piazza,  era la stessa semplice bussola a vetri smerigliati  di un precedente ambulatorio medico trasferitosi chissà dove. Così, capitava che durante le lezioni si affacciasse qualcuno in cerca del medico. L’espressione sorpresa del paziente mancato era sempre accolta con grandi risate dalle bambine di prima media.
Quando il tempo era buono ed il mio orario favorevole, mi portavo dietro il cane che gironzolava libero per il paese prima di venire ad accoccolarsi fuori della porta vetrata, non senza provocare insistenti richieste delle scolare perché lo facessi entrare.
Per mitigare l’austerità eccessiva dell’ambiente avevo lasciato che le ragazzine vi affiggessero manifesti dei loro idoli del momento e, in cambio della cortesia, loro mi avevano portato un bel poster di Marilyn Monroe che avevano appeso alla parete di fronte alla cattedra. Ci eravamo anche costruiti un planisfero ed una bella carta d’Europa con pastelli colorati.  Il risultato assomigliava abbastanza alle carte ufficiali ed era, comunque, meglio di niente.
L’impresa aveva galvanizzato le scolare e l’aula era diventata uno spazio “loro” in cui passavano volentieri la mattina a studiare, finché una brutto giorno abbiamo trovato le pareti spoglie: il ritratto del vescovo era rimasto nuovamente solo.
I bidelli avevano ricevuto dalla sede centrale di Spilamberto l’ordine telefonico della preside, mai vista né sentita, di staccare e buttare via tutto. Un sopruso bello e buono frutto di ottusità, per non dire altro. Il prete, un simpatico ragazzo, padrone di casa e insegnante di religione, era completamente estraneo alla vicenda e sorpreso dell’accaduto quanto noi. Non sapemmo mai di chi o di che cosa avesse avuto paura la preside assenteista.

Giretto a Brisighella

gio. 27 marzo 2008

Nel primo pomeriggio dello scorso otto febbraio siamo tornati a Brisighella, un centro termale ad una dozzina di chilometri da Faenza nella valle del Lamone in provincia di Ravenna.
La collina faentina è una delle nostre mete ricorrenti per la dolcezza del paesaggio ricco di frutteti e vigneti. e Brisighella è uno dei centri più caratteristici con le tre colline selenitiche sormontate dalla Torre dell’orologio, dal castello dei Veneziani e dalla Chiesa di Monticino.
Celebre è la via degli asini, un tempo percorsa da carri carichi di minerale gessoso delle vicine cave, ora chiuse e trasformate in parco. La via, ora è inglobata nelle case e illuminata da aperture ad arco, come appare nella foto. Con i suoi 7500 abitanti ha l’aria di un paese tranquillo dove è piacevole passeggiare, magari salendo per un sentiero con scale ripide fino alla torre dell’orologio per ridiscendere in paese passando sotto al castello dei Veneziani, ora in restauro. La giornata era fresca e luminosa e scattare qualche foto è stato inevitabile.

Cliccando qui o sulla foto potrai vederne una selezione raccolta in forma di album

Sigaretta elettronica

mer. 12 marzo 2008

sigaretta elettronica

Leggo sul Corriere che è in arrivo la sigaretta elettronica e sullo stesso principio anche il sigaro e la pipa elettronici. Si tratta di tre oggetti che condividono la stessa idea: sostituirsi alle corrispettive forme tradizionali senza inquinare l’ambiente fornendo, però, al fumatore la libertà di fumare ovunque senza contravvenire alle leggi, senza danneggiare chi fuma e chi gli sta vicino (in casa, nei bar ecc,) senza produrre odori sgraditi nell’ambiente o sui vestiti. Dalla sigaretta o dalla pipa elettronica non uscirà altro che vapore acqueo e una “cartuccia” da due dollari permette di fumare l’equivalente di due pacchetti di sigarette, nicotina compresa, ma nulla di cancerogeno. Per le caratteristiche e i prezzi vedi il sito della crown7 , cliccando qui o sulla figura.

Piacerà, o è solo fumo negli occhi?

pipa elettronica

L’eterna rimozione

dom. 09 marzo 2008

Come accadeva a Bisanzio e resta traccia nei magnifici mosaici si S. Apolinare nuovo a Ravenna, è in corso la rimozione di un personaggio di primissimo piano come il prof. Romano Prodi, tuttora presidente del consiglio dei ministri del nostro Paese. Assistere alla vicenda “in corso d’opera” è stupefacente, a parer mio, e mi ha rallegrato leggere sul Corriere di oggi 9 Aprile 2008 l’editoriale “L’eterna rimozione” di Ernesto Galli della Loggia nel quale si tenta di spiegare questa sorta di precocissima damnatio memoriae da parte di quegli stessi che dovrebbero nutrire sentimenti di gratitudine nei suoi confronti. Niente di nuovo sotto il sole, mi si dirà. Infatti, niente di più vecchio e meno obsoleto.

Riporto qui sotto la riproduzione del celebre mosaico dei re Magi a S. Apollinare N. Si noti, immediatamente a destra del dono d’oro di Gasparre, il primo re, la mano residua di un personaggio per il resto completamente rimosso, con un rifacimento frettoloso e approssimativo del mosaico.

re magi a Ravenna

Referendum in musica: non disturbare il compositore

lun. 12 maggio 2003

Questa mattina sono andato a votare.
Credo che sia la prima volta in vita mia che utilizzo il lunedi’.
La scuola, semibuia per creare l’illusione del fresco attraverso una penombra artificiale, sembrava vuota.
S’intravvedeva solo un’ombra di bidello virtuale, seduta ad un tavolo lontano in fondo all’atrio. Sembrava inaccessibile, però, dietro una cortina di vetrate. Imboccato il corridoio indicato chiaramente dai soliti cartelli numerici non ho avuto difficolta’ a raggiungere il seggio. Nessun anima in giro, eccetto la squadra di scrutatori. Un grosso ragazzo mancino ha trascritto i miei dati sul registro dei votanti esibendo un notevole impegno, quasi uno sforzo muscolare.
Il presidente mi ha consegnato la solita matita copiativa, costruita nell’immediato dopoguerra, e le due schede indicandomi ad alta voce e senza alcuna ironia: “Cabina numero uno” invece di un piu’ ragionevole: “Vada dove vuole: e’ tutto vuoto.”
Sbrigata l’incombenza mi sono trattenuto un minuto a chiacchierare per tirarli un po’ su di morale.
Uno dei tre, senza mai alzare gli occhi in nessuna fase dell’operazione, ha continuato a scrivere a mano, con una matita (non copiativa, spero) uno spartito musicale. La mia presenza non lo ha distolto dalla sua composizione.
Meno male.

 

Le fragili ali dei gatti di piombo

ven. 16 maggio 2003

Disse che gli avrebbe tarpato le ali, al momento buono.
Testuale.
Difficile dire se m’incuriosisse di più sapere il “come” o il “quando”, perché l’indicazione temporale “al momento buono” sarebbe sembrata vaga anche ad un messicano durante la siesta.
Ma, anche accettato il fatto che il momento buono si sarebbe rivelato miracolisticamente con strabiliante e inoppugnabile evidenza a tutti noi donne e uomini privi di fede, restava da capire come avrebbe fatto.
Anche se non si sarebbe trattato, presumibilmente, di un incontro di box, va precisato che la tarpatrice apparteneva ai pesi allodola, mentre il tarpando andava collocato fra i pesi rinoceronte e quelli ippopotamo.
Volendo descriverlo con benevolenza, era un maestoso gatto di piombo guercio, sopravvissuto a mille battaglie, che non aveva mai sentito il bisogno di sollevare la sua flaccida mole di un millimetro dal fango fertile sul quale aveva saputo muoversi con straordinaria abilità: ordinario, preside di facoltà, fondatore di università, benchè semianalfabeta. Questo, in estrema sintesi, il suo cursus honorum.
Sul piano politico, aveva dimostrato una prontezza nello sfruttare a suo vantaggio anche le brezze instabili più impalpabili e ballerine da surclassare qualsiasi scafo da regata.
In più, non aveva alcun pudore nell’esibire se stesso per quello che era: un arrivista ignorante in buona salute.
Donde avrebbe cominciato, al momento buono, a becchettarne le ali di piombo l’impavida tarpatrice?

Ormai le pampas non valgon piu’ una ciccas

sab. 17 maggio 2003

  • … magari
  • Perche’ tu non ce l’hai?
  • No, non l’ho nemmeno visto
  • Com’e’ possibile, ma se ce ne sono dappertutto. Siamo invasi, ormai.
  • Voglio dire visto da vicino, preso in mano. Tu, invece, da quanto l’hai preso?
  • Me l’hanno regalato. Se fosse per me…
  • Vedi, allora; di cosa ti meravigli? Dicono che sia utile, però
  • Sara’ , ma se ne abbiamo fatto a meno per mille anni…
  • Milioni, vorrai dire. Gli antropologi ormai si sono scatenati. Quando eravamo ragazzi sembrava che parlare di un’eta’ di centomila anni fosse una mezza eresia, ti ricordi? A me va benissimo, intendiamoci. Io sono sempre stato un evoluzionista convinto. Anche quando sembrava che le cose dovessero andare a scatafascio, io ho sempre detto: – Vedrai che pian pianino tutto si aggiusta… per dire che c’e’ sempre un evoluzione.
  • E’ l’inflazione: cento, mille, milioni. Quando comincia non si ferma piu’.
  • Infatti. Guarda l’Argentina, ormai le pampas non valgon piu’ una ciccas.
  • Pampas? Ma quelle non erano le praterie con i gaucios sempre a cavallo, se non stanno ballando i tangos, come nei film?
  • Hai ragione, devon’essere i pesos; mi sono confuso, con tutte quelle parole in s. E’ meglio da noi dove le parole finiscono con tutte le vocali necessarie per capirsi.
  • Non c’e’ niente di piu’ bello dell’italiano, lo dicono tutti.
  • E delle italiane, anche.
  • Si capisce, sono le mamme dell’italiano. Se fossero brutte loro, guai.
  • Non voglio neanche pensarci a una disgrazia del genere, sai cosa ti dico.
  • Altro che l’inflazione.

Nell’immagine: Pampas nostranas (Gran Sasso)

Allodole o gufi?

sab. 17 maggio 2003

“Siete allodole o gufi? A deciderlo e’ un gene, o meglio la sua lunghezza. … Secondo quanto riportato sulla rivista Sleep, tanto piu’ corto e’ il gene, chiamato Periodo 3 (Per3), tanto piu’ l’individuo portatore e’ nottambulo.”

Mia zia A. che per tutta la sua vita cadeva in coma alle nove, ci fosse pioggia neve o tempesta, doveva averlo lunghissimo il suo Per3. Un XXL, come minimo.
Chi l’avrebbe mai detto, conoscendola.Vedi l’articolo in: http://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/2003/giugno/17/gene_nottambuli.html