Castelvetro di Modena

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mer. 02 aprile 2008
Una settimana fa, al ritorno da un blitz a Fiorano per una incombenza pratica, abbiamo deciso di tornare a casa per stradine di collina prive di traffico e ricche di curve e di scorci inattesi.
L’album di foto è una raccolta d’immagini scattate dalla stretta strada che porta dal fondovalle al piccolo santuario della Madonna di Puianello e, nuovamente, giù fino a Castelvetro: un piccolo centro della collina modenese che ha saputo attuare un gradevole restauro conservativo.

 

Castelvetro - Modena

Io ricordavo Castelvetro di Modena com’era nel ‘966 quando dovevo raggiungerlo quotidianamente in auto da Bologna, anche dopo l’alluvione del 4 novembre che abbatté i ponti di Spilamberto e Vignola sul Panaro. Tutti la ricordano per i danni molto più clamorosi dell’Arno a Firenze.
Era un paese tranquillo con municipio, chiesa, scuole, caffè, sali&tabacchi e un barbiere con cui giocare a scacchi. Quell’anno, la scuola media non aveva aule a sufficienza per i ragazzini del paese e di un vasto circondario, così a me, giovanissimo supplente annuale, toccò la fortuna di un aula ricavata al pianterreno di palazzo Rangoni, di fronte alla chiesa parrocchiale a cui apparteneva. Sulle pareti solo il ritratto incorniciato del vescovo di Modena e, per riscaldarci, una poderosa stufa a legna Becchi con i regolamentari cassettoni ed un lunghissimo tubo precariamente fissato al soffitto.
La porta di accesso all’aula, aperta direttamente sulla piazza,  era la stessa semplice bussola a vetri smerigliati  di un precedente ambulatorio medico trasferitosi chissà dove. Così, capitava che durante le lezioni si affacciasse qualcuno in cerca del medico. L’espressione sorpresa del paziente mancato era sempre accolta con grandi risate dalle bambine di prima media.
Quando il tempo era buono ed il mio orario favorevole, mi portavo dietro il cane che gironzolava libero per il paese prima di venire ad accoccolarsi fuori della porta vetrata, non senza provocare insistenti richieste delle scolare perché lo facessi entrare.
Per mitigare l’austerità eccessiva dell’ambiente avevo lasciato che le ragazzine vi affiggessero manifesti dei loro idoli del momento e, in cambio della cortesia, loro mi avevano portato un bel poster di Marilyn Monroe che avevano appeso alla parete di fronte alla cattedra. Ci eravamo anche costruiti un planisfero ed una bella carta d’Europa con pastelli colorati.  Il risultato assomigliava abbastanza alle carte ufficiali ed era, comunque, meglio di niente.
L’impresa aveva galvanizzato le scolare e l’aula era diventata uno spazio “loro” in cui passavano volentieri la mattina a studiare, finché una brutto giorno abbiamo trovato le pareti spoglie: il ritratto del vescovo era rimasto nuovamente solo.
I bidelli avevano ricevuto dalla sede centrale di Spilamberto l’ordine telefonico della preside, mai vista né sentita, di staccare e buttare via tutto. Un sopruso bello e buono frutto di ottusità, per non dire altro. Il prete, un simpatico ragazzo, padrone di casa e insegnante di religione, era completamente estraneo alla vicenda e sorpreso dell’accaduto quanto noi. Non sapemmo mai di chi o di che cosa avesse avuto paura la preside assenteista.

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