In cilindro a Capodanno

gio 01 gennaio 2009 In cilindro a Capodanno

Il Capodanno gli era passato vicino come un brivido leggero, quasi inavvertito, ma per il resto stava bene, come sempre. Un sospetto gli era venuto vedendo qualcuno per la strada con un cilindro lucido in testa, cappotto nero e papillon bianco al collo, ma niente di straordinario, in definitiva: per fortuna qualcuno continuava a vestirsi come dio comanda.

Lo stupivano di più i ragazzi con i calzoni di tela blu stracciati (apposta?) sulle ginacchia. Poverini, sembravano sempre così assorti con le loro cuffiette nelle orecchie: mai un attimo di respiro per guardarsi in giro senza pensieri in testa, come avrebbero diritto di fare tutti i ragazzi del mondo. Studiavano forse, ripassavano la lezione, probabilmente. Per fortuna i cani in strada sembravano sempre gli stessi, tutti concentrati a scoprire nuove tracce lasciate in giro dagli amici del quartiere e da passanti spudorati e sconosciuti, irrispettosi del territorio.

conigli dal cilindro

La nevicata era stata leggera, ma i tigli, completamente spogli, erano diventati una meraviglia: un merletto bianco sullo sfondo di un cielo che tentennava ancora fra il grigio e l’azzurro.
Il giornalaio era chiuso, dubitò che un lutto grave lo avesse colpito, ma nessun avviso confermava, per fortuna, l’ipotesi funesta. Entrò nel solito caffè per chiedere lumi, con il pretesto di un cappuccino ed un croissant salato. Il giornalaio? no, niente di grave, era chiuso come sempre a Capodanno. Rassicurato tornò a casa, a palazzo Braschi, diceva lui, a mangiare una mezza melina e due noci con il pane: bisognava fare festa, allora.

Gatto, topo, cavallo

ven 19 dicembre 2008 Gatto, topo, cavallo

  • Gatto, topo, cavallo Cvallao òàè@ì
  • …e allora?
  • Niente, sono vent’anni che uso queste stupide parole per verificare un nuovo indirizzo e-mail e il correttore ortografico
  • …e quando ti ritorna bello integro sei soddisfatto?
  • Proprio così.
  • E cos’altro potrebbe succedere?
  • Niente. Potrebbe non tornare indietro nulla.
  • Questo è più interessante. Dove si disperdono gli e-mail perduti, secondo te?
  • Questo non la sa nessuno. Oltre al cimitero degli elefanti, ci dev’essere quello degli e-mail perduti.
  • Dove potrebbe essere?
  • Ci ho pensato molte volte. Dovrebbe essere un luogo incorporeo, ma capiente.
  • Un pozzo senza pareti e senza fondo, allora.
  • Sapresti disegnarlo?
  • Occorrerebbe una matita senza punta.
  • Non l’ho più. Spuntata, non funzionerebbe, immagino.
  • No, infatti.
  • Ho paura, allora, che resteremo senza il tuo capolavoro.
  • Non te la prendere, non potrei farlo in nessun caso: sono capace di disegnare solo dal vero.
  • In questo caso basterebbe una foto, ti pare?
  • Sarebbe sicuramente più realistica.
  • Pensi che dovremmo usare gl’infrarossi?
  • Buona idea. In questo modo potremmo distinguere la posta fresca da quella stagionata.
  • Perché gli e-mail appena arrivati sono più freschi, secondo te?
  • No, più caldi. Dovrebbero essere roventi per la caduta libera dentro al pozzo.
  • Come i meteoriti quando entrano nell’atmosfera.
  • E’ inevitabile.
  • Allora, scusa sai, ma se il pozzo fosse abbastanza profondo, si disintegrerebbero.
  • Sicuramente.
  • Ma sappiamo che il pozzo è senza fondo.
  • Giusto. Allora, abbiamo risolto il mistero degli e-mail perduti.
  • Perfetto! Non ci avevo mai pensato, ma è inevitabile che sia così: si disintegrano. Quanti topi, gatti e cavalli ho disintegrato, allora, in vent’anni.
  • Sì, ma a tua insaputa, ora non insistere però.

Troppo tardi

mer 17 dicembre 2008 Troppo tardi

Era troppo tardi per partire, ma restare sembrava ancora peggio e tertium non datur. O no?
Si trattava
di trovare il modo per salvare la pelle, con una bella pensata, all’altezza della situazione. Non è che fosse proprio certo che l’ordine di eliminarlo fosse già stato emesso, né tanto meno che fosse stato stabilito quando, come e chi dovesse eseguirlo, ma gli era bastato sapere che lo avevano inserito nella lista dei sospetti per capire che era ora di cambiare aria in fretta, o meglio ancora, subito. Dove andare, però? e soprattutto, come fare ad abbandonare la casa senza essere visti e seguiti. Senza “partire”, insomma”.

Come inizio di un racconto poliziesco non gli sembrò molto originale, ma. al momento, non sapeva dove andare a parere e la sua esperienza lo portava a non sopravvalutare l’importanza del PRIMO incipit. Importante era solo l’ultimo incipit, quello definitivo, da piazzare all’inizio a racconto finito, quando, finalmente avrebbe saputo come si erano svolti i fatti e, soprattutto, come era andata a finire la storia. Per il momento, era importante cominciare a scrivere, poi, con un po’ di fortuna, si sarebbero fatti vivi i personaggi e anche l’ambientazione avrebbe cominciato ad apparire con un blow up progressivo, come accadeva alle veccchie stampe in bianco e nero immerse nella bacinella di sviluppo

Riguardo ai personaggi aveva una teoria ben radicata; bisognava lasciarli respirare, che si muovessero a loro piacimento, insomma, si sentissero liberi e dessero fondo alle loro risorse, se ne avevano. Solo quando rischiassero di scappare fuori dalla storia li riprendeva con una tiratina di briglie, altrimenti, trottassero pure a loro talento. Questo ragazzo (era un ragazzo?), che sembrava così mal messo, avrebbe dovuto muoversi in fretta, se era proprio vero che gli stavano con il fiato sul collo per ammazzarlo. Lui li conosceva i suoi aguzzini, o almeno credeva di sapere chi fossero, mentre lo scrittore ne era completamente all’oscuro: se la sbrigasse da solo, dunque, e se non era in grado di cavarsela neppure nelle prime righe, morisse pure, come tanti altri personaggi nati morti. Per saperlo, bastava aspettare.

Non disponendo di gallerie sotterranee, come nei vecchi castelli e neppure di una più modesta uscita posteriore, meno in vista del portone d’ingresso, illuminato platealmente, non gli restava che il travestimento, qualcosa di credibile, però, non la solita barba finta, cappello calato sul muso e occhiali scuri.
Optò per la platealità: tacchi vertiginosi, gonna lunga e stretta con spacco inguinale al centro, calze a rete, boa di struzzo viola, trucco da professionista dell’adescamento stradale, parrucca rosso fiamma e borsetta roteabile. Nell’atrio, quasi si scontrò con un cassiere di banca e prode coinquilino che non lo riconobbe affatto e lo guardò con l’aria costernata di chi vedeva la schiuma del malcostume dilagante lambire, ormai, la sua benpensante magione.
Rinfrancato da quel primo test superato a pieni voti, si buttò con baldanza esagerata sul marciapiedi, ancheggiando sui tacchi madornali fino al parcheggio semi-buio, dove lo aspettava l’utilitaria anonima con la quale buttarsi nel traffico demenziale verso una meta da definire, ma lontana di lì, quando cinque colpi ben assestati al corpo e un sesto finale alla testa, chiarirono i suoi dubbi: la sentenza definitiva era stata emessa. Quando doveva essere eseguita? ora. Dove? lì. Chi la doveva eseguire? due tangheri che sapevano sparare.

Prima di morire, raro privilegio, fece in tempo ad ascoltare la sua orazione funebre: “L’ho ammazzato volentieri ‘sto pervertito. Lo sapevi tu che era anche un finocchione?”
“No; ma c’è poco da meravigliarsi: non c’è più religione al giorno d’oggi”

Uno Stetson a tre punte

Cappelli '800

tricornotricornoUna bella mattina si svegliò sicuro che per stare proprio bene al mondo avrebbe dovuto trovare il suo cappello a tre punte: un bel cappello a tre punte. Siccome però non era una bestia selvatica, decise di parlarne prima con gli amici. Andò in piazza, prese un caffè e si guardò d’attorno: pochi cappelli in giro: qualche vecchio con un feltro unto, qualche ragazzino con il berrettino a visiera e, soprattutto, molte teste mezze pelate o normalmente capellute e spettinate. Su una bici da corsa, passò anche un ragazzo (da dietro sembrava più una ragazza) travestito da ciclista, con tanto di caschetto a striscie di cuoio imbottite, tipo coppi-bartali. Decise che non faceva per lui.

Il primo a cui parlò della sua idea, gli ricordò come non avesse mai portato un cappello in vita sua, da quando si era potuto togliere l’odioso pignattino di tela che gli avevano imposto le maestre giardiniere per andare in ispiaggia durante le vacanze al mare in “colonia”. Pioggia, neve o tempesta, tutti l’avevano sempre visto a testa scoperta.
Un altro gli chiese se per caso non gli fosse rimasto a frullare in quel testone vuoto un qualche film in costume, magari con moschettieri rampanti su cavalli coraggiosi e belle dame da salvare. Il più silenzioso, si lasciò strappare di bocca: “Un tricorno? ma non fare il Pitagora fuori stagione!” che lasciò tutti di stucco.
Dopo mezz’ora di cretinate, divaganti sui sette mari e i quattro continenti (o erano solo tre anche loro?), dopo l’evocazione partecipata di negre favolose mezze nude, sterminate con i bambini in braccio da flemmatici soldati inglesi vestiti di pesante panno blu, comandati da generali in tricorno piumato e di Napoleone, che in barba alla sua mania di conquistare il mondo intero, si era accontentato di un cappello a due punte soltanto, come una gondola rovesciata, la situazione emerse in tutta la sua drammatica chiarezza: occorreva uno sforzo solidale per trovargli ‘sto maledetto cappello: tutti per uno, uni per tutto, come Dartagnan.

cappellaioQui veniva il difficile, però. L’ultimo capellaio del paese aveva chiuso bottega da anni e, poveretto, anche la sua ultima saracinesca l’aveva tirata giù da un pezzo. Della vedova non c’era da fidarsi troppo, nel ramo cappelli: donna di chiesa, niente da ridire, imabittibile rimbeccatrice di santamariamaterdei al rosario, ma in bottega non valeva niente, neanche ai bei tempi e neppure in cucina o a letto, stando alla sentenza dei bene informati.
Da Pirelli-Sport, più che qualche cappello di tela mimetizzata da pescatore non si poteva pretendere e l’armaiolo teneva solo cappelli tirolesi con lo scopino infilato nel nastro: un solo modello, una sola misura, un solo cappello, prendere o lasciare. Di cercarlo da un costumista teatrale non venne in mente a nessuno, perché il teatro non aveva mai messo radici in paese e i patiti dell’opera, nelle grandi occasioni, dovevano affrontare un viaggio fino a Milano o, almeno, fino a Parma per potersi sfogare come dio comanda. Loro però, i cantanti li vedevano già incartati nei loro costumi e pronti a cantare sul palcoscenico; chi li avesse prima vestiti in parrucca e borsa era un mistero che non avevano mai sondato: a ognuno il suo mestiere.

Strologando, strologando alla fine venne fuori che c’era una sola strada maestra da seguire: bisognava lasciare a casa la macchina e prendere il treno come si faceva una volta nelle grandi occasioni, che, in altre parole, voleva dire andare a Modena con la littorina, sull’unica linea che passava per il paese, quella che nella direzione sbagliata andava anche a Mantova, da non nominare neanche.

cappelliTutti c’erano già andati molte volte, chi più chi meno e, anche se erano più pratici del foro boario che delle botteghe vicino al duomo, decisero che era venuta l’occasione per tornarci, senza aspettare la fiera del bestiame. Bisognava partire dopo mangiato: un sabato dopo pranzo si poteva tentare l’avventura; bisognava essere almeno in tre, più il muto che aveva fatto la prima commerciale e qualcosa doveva pur sapere, se solo si fosse deciso a parlare.

Le mogli non furono contente, ma chi era il padrone di casa? se avevano deciso di andare, era così e basta e il sabato successivo le avrebbero portate anche loro, ma in macchina, stavolta, e sarebbero andati anche a caffè a mangiare il gelato, seduti in piazza, e poi al cine.

Sul treno fecero il piano di battaglia: appena smontati, bisognava chiedere al capostazione, quello con la paletta, il fischietto ed il berretto rosso dove si compravano i cappelli e i berretti seri come il suo, insomma dove si trovava il cappellaio più importante, con la migliore reputazione, dal quale farsi consigliare per un acquisto, senza badare a spese.

cappelleria

Tom MixSi chiamava Barbetti, ma era più conosciuto come Borsalino, lui e la sua famiglia erano cappellai fin dai tempi del duca o anche prima. Trovarlo? Facilissimo, era dov’era sempre stato: sotto il portico del Collegio, a meno di duecento passi dal duomo: domandassero a chi volevano, lo conoscevano tutti: teneva di tutto, anche i cappelli da vescovo, con licenza parlando, per trovare di meglio bisognava andare a Roma dal cappellaio del papa in persona, e poi chissà se era meglio davvero?
Trovarlo fu facile, come aveva garantito il capostazione; dall’insegna di ferro e dalla vetrina di vecchio noce scolpito si capiva subito che tutto quello che avevano sentito era vero fino all’ultima virgola: altro che fino dai tempi del duca, quella bottega lì doveva avere almeno cent’anni.

Entrarono tutti tre come un sol uomo, lasciando il muto fuori a fumare il toscanello, tanto non gli avrebbero cavato una parola di bocca. Dentro c’erano cappelli appoggiati in fila su scaffali chiusi da vetri, come vasi di uno speziale e altri in giro di tutte le fogge, calzati su teste di manichino, come fossero parrucche. Rimasero a bocca aperta davanti a tanta grazia di dio, finché non arivvò la frase fatidica, che li commosse come se si fossero trovati protagonisti di uno sceneggiato televisivo: “In cosa posso servirli?”. Valeva la pena di fare il viaggio e tutto il resto solo per quel momento.
Imbarazzati, spiegarono che erano venuti proprio per comprare un cappello, sì uno solo, ma erano venuti in tre perché si trattava di un tricorno, non il solito cappello da contadino, ma si affidavano completamente alla sua esperienza, insomma facesse lui per il meglio e cosi fu.

Quando il muto li vide finalmente uscire trionfanti, come se avessero vinto un terno al lotto, ruppe il silenzio per una delle sue frasi storiche: “Ma cosa fai, coglione, con il cappello bianco di Tom Mix in testa: sembri un fungo appena spuntato. Bravo! Per rompere un digiuno durato cinquant’anni, volevi, a tutti i costi, un tricorno da milord inglese e ti sei fatto rifilare un avanzo di magazzino da vaccaro americano. Bravo! proprio bravo e ci scommetto che l’avrai anche pagato un occhio della testa.”

cappello di Tom Mix

Non c’è più trippa per gatti

lun 08 dicembre 2008

  • Non c’è più trippa per gatti
  • Dici che anche loro non arrivino alla terza settimana?
  • Ma? Secondo gli etologi, i gatti non sanno neppure cosa sia una settimana
  • Come hanno fatto a capirlo?
  • Non gli davano da mangiare una volta alla settimana nel giorno del Signore.
  • Li facevano digiunare la domenica?
  • No, il martedì
  • Il martedì sarebbe sacro al dio dei gatti?
  • Non so. Ma credo che fosse solo per evitare diatribe religiose fra i ricercatori.
  • Ah! venerdì dei musulmani, sabato dei giudei, domenica dei cristiani, lunedì stanno tutti a casa, giovedì gnocchi …
  • Esatto, hai centrato il problema
  • Invece i gatti non hanno capito niente?

gatti neri

  • Lo so che ti sembra incredibile, ma attraverso questa prima tappa, loro volevano arrivare a spiegare a gatti e porci i semplici meccanismi del mercato per superare la crisi…
  • …aspetta, adesso non ti capiso neanche io. Hai detto che li facevano digiunare un giorno alla settimana per…
  • sì, per incrementare la fiducia e, indirettamente, fare aumentare i consumi, perché è proprio in questo che sta la salvezza
  • Ma non hai detto che non c’è più trippa? ad un ignorante come me sembra una presa per il naso.
  • La mancanza di trippa è proprio lo scoglio su cui si sono temporaneamente arenati, ma vedrai che, una volta capito come superare questo inconveniente marginale…
  • ..e, frattanto i gatti come se la passano?
  • Per adesso dimagriscono e miagolano come poveri disgraziati.
  • Non si può mica pretendere che abbiano il comprendonio di noialtri umani.
  • Se capissero che tenersi belli magri può salvarli. dal finire in padella come in tempo di guerra
  • E’ sempre così; in definitiva, è per il loro bene, che li tengono leggeri a trippa, ma va a farglielo capire.

Una totale mancanza di bisogno

gio 04 dicembre 2008 Una totale mancanza di bisogno

  • Se improvvisamente ti ritrovi nella più totale mancanza di bisogno, cosa fai?
  • Niente, da principio
  • … e alla fine?
  • Niente di niente
  • .E cosa cambia?
  • Come qualità niente, ma come quantità ammetterai che c’è un salto di qualità
  • E’ che io non riesco a misurare il niente
  • L’hanno inventato gli arabi, come lo zero; lo devi guardare da destra a sinistra ; è quello il trucco
  • Pensavo che lo si dovesse guardare in modo olistico come un cammello nel deserto…

Giza

  • …cioè dall’alto o da lontano?
  • Dipende tutto dal punto di vista, l’importante è non tentare di frazionarlo
  • Come lo zero
  • Infatti , non bisogna scambiare la parte per il tutto
  • Sotto metafora?
  • Quando vuoi, anche subito
  • Preferirei anche io, ma possiamo permettercelo?
  • Se non ho bisogno di niente, bisognerà pure che cominci da qualche parte, ti sembra?
  • Non dimenticarti, però di muoverti in modo olistico da destra a sinistra come una arabo nel deserto
  • Ho bisogno di pensarci

La mia foto è stata scattata nei pressi delle piramidi di Giza al Cairo, durante un viagggio in Egitto

Villa Sorra

mer 03 dicembre 2008 Villa Sorra

Villa Sorra MO

Villa Sorra

Questa è la sintetica illustrazione ufficiale di Villa Sorra, nella campagna modenese, quale appare sul cartello che ne illustra le caratteristiche e la storia. Il parco, ora oggetto di cure e restauri è visitabile piacevolmente in una bella giornata, quando passeggiare sull’erba fuori città è uno spasso.Per vedere una collezione di foto scattate in un fresco pomeriggio novembrino, clicca qui.

Il gorgo di Occhiobello

gio 27 novembre 2008 Il gorgo di Occhiobello

Il 15 novembre scorso, in un bel sabato di sole, dopo alcuni giorni di pioggia e di vento, siamo tornati sul Po ferrarese, dopo aver pranzato al “Ponte rosso” di San Giorgio di Piano, una simpatica trattoria bolognese senza fronzoli, dove si mangia bene secondo la tradizione.
Erano trascorsi esattamente cinquantasette anni da quel tragico 15 novembre 1951, quando il Po ruppe gli argini e allagò l’intero Polesine arrivando fino alle porte di Rovigo sulla sponda sinistra e allargandosi nel ferrarese sull’altra sponda.

L’incontrollata estrazione di metano nei precedenti decenni aveva contribuito, con l’abbassamento del suolo e degli argini (ma non del fiume), a moltiplicare gli effetti disastrosi della piena. Al cordoglio nazionale per i morti ed i feriti, nelle prime ore, e alla commovente gara di solidarietà che percorse l’intero paese, seguì, solo più tardi, la consapevolezza dell’entità del disastro: una catastrofe che cambiò per sempre, non solo la vita delle migliaia di sfollati, ma l’intero equilibrio di un territorio vastissimo che non si è mai più ripreso del tutto. La patria delle nebbie si è spopolata per sempre e ha cambiato faccia. Io avevo nove anni allora, ma ricordo bene i bollettini degli inviati della RAI che si susseguivano ora dopo ora, nel difficile compito di descrivere la vastità dell’esondazione. Allora abitavamo a Roma; capannelli di persone si formavano per strada intorno ai pochi luoghi dove una radio accesa trasmetteva ai passanti in strada i bollettini. La televisione non c’era e neppure le radioline a transistor, che si diffusero solo alla fine del decennio, ma l’evento era così drammatico che tutti cercavano di seguirlo minuto per minuto, con gli scarsi mezzi d’informazione disponibili.

Gorgo sul Po

Gorgo di Occhiobello sul Po

Oggi, a più di mezzo secolo di distanza, in una bella giornata di “normale” piena novembrina, i gorghi che si formarono allora non sono altro che piacevoli specchi d’acqua limpida che rendono impraticabili i parchi commemorativi che ricordano l’alluvione del ’51. Il gorgo di Occhiobello, vicino a Ferrara, ma sulla sponda veneta, è l’oggetto della presentazione che propongo ai lettori che desiderino guardarla. Clicca qui o sulla mia foto qui sopra per vederla. La musica che accompagna lo scorrere delle immagini è “Suzanne” di Leonard Cohen.

Sopra la capra panca

    mer 26 novembre 2008 Sopra la capra panca

    • … ce l’hai anche tu con le panchine, o sei un pro-panca?
    • Parli di quelle dove “sopra la capra panca”?
    • “Sopra la panca la capra campa” vorrai dire
    • Bravo, proprio così. Mi sbaglio sempre perché non ho mai capito che senso abbia il tutto
    • Per questo, neanche io, ma prova a pensare ad un “barbone” al posto della capra e tutto diventa chiaro
    • Ah, ecco, hanno sostituito capra a barbone perché altrimenti lo scioglilingua non funzionerebbe
    • Principalmente…
    • … e secondariamente?
    • Be’ non starebbe tanto bene far sapere alla gente che stanno togliendo le panchine dalle citta per evitare che i barboni campino?
    • Giusto, invece a lasciare morire le capre per mancanza di panche non fa danno, dato che di capre in città non ce ne sono quasi più
    • Quasi? Perché hai visto qualche capra in giro qui da noi?
    • No, io no, non ci sono più nemmeno quelle tibetane ai giardini Margherita. Dicevo solo per non fare lo sbruffone con delle affermazioni assolute.
    • Giusto, non si sa mai. C’era in giro una tigre scappata da un circo, l’altro giorno
    • O una pantera?
    • Perché? ti sembrerebbe più normale di una tigre, una pantera sotto il portico dei Servi?

    • Ma? non ti so dire; vedo solo dei barboni e niente panche né fontanelle, adesso che mi ci fai pensare. Né tigri, né pantere, né capre, né panche, solo barboni
    • In mancanza di panche e con quest’aria che pela, sarebbe meglio se andassero tutti sotto un bel tendone da circo, possibilmente senza pantere né tigri
    • Chissà se quelli che hanno tolto le panche hanno fatto per incoraggiarli ad andare al caldo, poveretti. Avranno senz’altro preparato un bel tendone riscaldato, come dici tu
    • Di sicuro. Non posso pensare che siano così distratti da essersene dimenticati, potrebbero perfino essere scambiati ingiustamente per delle carogne
    • Hai ragione, dev’essere così, senz’altro. Ma a te i barboni sono simpatici?
    • No, neanche un po’, ma c’è di peggio, molto di peggio e se la spassano da nababbi
    • Pensi ai banchieri e agli altri milordoni sfruttatori e affamatori grassi e lustri come papi?
    • Come hai fatto ad indovinare?
    • Per fortuna, principalmente.

Deltoide

lun. 24 novembre 2008 Deltoide

  • … lei dice: “Vedrà che facciamo in un attimo…”
  • Lo ha detto per rassicurarti. E allora?
  • e aggiunge: “… è solo una piccola iniezione intramuscolare. Gliela faccio sul deltoide”
  • Ma tu lo sapevi che cosa è il deltoide?
  • Ma figurati, ho pensato che le intramuscolari si fanno sulle chiappe, da che mondo è mondo. . .
  • Giusto!
  • Ma ho pensato anche che il solo vaccino che mi hanno fatto in vita mia era sul braccio
  • Anche a me; ho ancora il segno. Quindi?
  • Quindi, vedendo che si era sistemata in pole position con la siringa in canna, in piedi al mio fianco, ho scommesso sul braccio
  • C’è un deltoide dentro al braccio?
  • Sembra di sì, io non vado oltre il bicipite, ma fra muscoli e muscoletti ce ne devono essere una miriade in zona

Deltoide

  • Ti ricordi come li bocciavano in anatomia, i nostri compagni di liceo che hanno fatto medicina?
  • D’altra parte, non potevo mica dirle: “Scusi tanto la mia ignoranza, ma i soli muscoli che conosco bene sono le vongole e le cozze”
  • Esagerato!
  • Ad ogni buon conto, le ho chiesto: ” devo togliermi la maglia?”
  • Saggio, cosi almeno localizzavi la zona: o spalla o chiappa.
  • Infatti, quando mi ha risposto che era meglio che la togliessi, ho capito dove mi avrebbe forato, spanna più, spanna meno
  • Ti ha fatto male?
  • No, niente di niente, ma quando stavo per andarmene, con l’aria più premurosa del mondo, mi dice” Non vada via ora, professore. Bisogna che si trattenga ancora una mezz’oretta in sala d’aspetto, per vedere le sue reazioni
  • Hai capito? in cauda venenum. E che reazioni avresti dovuto avere, così in pubblico?
  • E’ quello che le ho domandato anch’io. Lei, candida: “Nessuna, se non è allergico alle uova, come mi ha detto, ma per sicurezza, aspetti una ventina di minuti qui fuori; vedo che si è portato un libro. Che cosa sta leggendo, professore?”
  • Glielo ho fatto vedere; era “La camera azzurra”
  • Ah, Simenon… bello, mi è piaciuto, ma è un po’ morbosetto, ti sembra?
  • Sì, a noi due piacciono di più “i maigret”, vecchio stile.
  • Soprattutto, quelli anteguerra. Ma tu cosa hai fatto? Ti sei messo a schiumare dalla bocca?
  • Mi era venuta la tentazione di fare qualche stranezza, ma c’era una signora che aspettava anche lei il suo turno al deltoide…
  • Non dico che avresti dovuto rotolarti per terra, ma potevi almeno sbarrare un po’ gli occhi…
  • Non ho ancora l’età , ma uno dei prossimi anni, non è detto che non mi cavi la soddisfazione
  • Bravo, altrimenti, che scopo avrebbe una stagionatura così lunga come la nostra? Anche il Barolo va stappato prima che diventi troppo vecchio.

Cargo cardo sardo tardo

14 novembre 2008

  • Cargo
  • cardo
  • sardo
  • tardo
  • Chi comincia?
  • Tu.
  • Nelle giornate di nebbia più fitta, quando ci si fidava più dei rumori e degli odori che degi occhi per trovare la strada, appariva improvvisamente come un fantasma. La caligine cancellava i segni più evidenti dell’abbandono, spegneva il rosso delle scaglie di ruggine, nascondeva i vetri rotti e i cumuli di rottami sgangherati su quello che un tempo era stato il ponte; restava solo una massa minacciosa da evitare con una decisa sterzata del manubrio, per evitare di volare nell’acqua bassa del porto, dove giaceva semiaffondata da secoli la carcassa del vecchio cargo, ormai senza nome.
  • Stando ai racconti di mio nonno, che per primo, me lo aveva mostrato nei nostri giri in bici al tramonto, quando il cane ci portava a spasso, seguendo piste olfattive misteriose che solo lui conosceva, era stato una gloriosa nave da carico che batteva rotte oceaniche fino alla Costa d’avorio: il posto più esotico che avessi mai sentito nominare. Avrei sempre voluto infrangere il divieto perentorio di abbordarlo per cercare all’interno della cabina di poppa una bussola, un sestante, una campana di bronzo, miracolosamente scampate alla rovina e ai saccheggi.
    Quando Bubu, ormai vecchio, non ce la faceva più a trascinarci fino al porto e si accontentava di stare accucciato tutto il tempo fuori dalla baracca dove il nonno teneva gli attrezzi dell’orto, anche io mi ero adattato alla nuova situazione stanziale. Verso sera, all’ora del nonno, passavo a salutarli, fingendo interesse per piselli, pomodori e carote. Una sola vicenda mi prendeva veramente: la crescita del cardo. Tutti gli anni il nonno allevava un cardo gigantesco che, a metà dicembre, doveva superarlo in altezza per essere poi trasportato trionfalmente in treno a Firenze, come regalo di Natale ad un suo amico e compagno di guerra con il quale aveva attraversato mezza Europa a piedi, per tornare a casa dalla prigionia in Polonia.
  • Il viaggio durato mesi, nei racconti romanzeschi che avevo sentito mille volte con imperscrutabili e improbabili varianti, era stato tragico per l’amico del nonno che ci aveva perduto la salute ed era stato costretto a cambiare radicalmente abitudini e vita. Da pastore sardo era diventato un restauratore di libri antichi. Trasferitosi a Firenze in casa di un fratello, emigrato a sua volta sul continente nel dopoguerra per sfuggire alla miseria, aveva finalmente trovato la fortuna nel modo più bizzarro. Quando nel novembre del ’66 l’Arno aveva invaso e stravolto strade e palazzi di Firenze, la sua botteguccia di rilegatore era stata sommersa da richieste di restauro di preziosi volumi sconciati dall’acqua e dal fango della piena.

codice

  • Il magro reddito di un rilegatore di periferia era stato rapidamente dimenticato. Sommerso dalle richieste, nel tardo autunno aveva ottenuto dai frati l’uso di un vasto loggiato arioso dove stendere ad asciugare i maestosi infolio, lavati dalla melma con l’aiuto di studenti volontari venuti da mezzo mondo e di tre garzoni locali, assunti con coraggio, sull’onda dell’entusiasmo solidale che si respirava in quei giorni a Firenze: irripetibile e sconosciuto in città fin dai tempi di Dante.
    Per immeritevole fortuna o per un talento insospettato, aveva raggiunto l’apice della gloria professionale quando aveva inventato un balsamo rigeneratore delle vecchie pergamene, a base di grasso di pecora e di altre sostanze tenute gelosamente segrete. La sua origine sarda non era stata estranea alla scelta, si disse.
  • Fine della storia?
  • Direi, le abbiamo usate tutte quattro e nell’ordine giusto. Adesso, dopo ‘sto cargo sardo non vorrai mica mangiare un cardo tardo?
  • Absit iniuria verbis! Piuttosto, cosa ci meritiamo, sangiovese o lambrusco?
  • Lambrusco, stasera e ci facciamo portare anche qualche crescentina calda, prosciutto e stracchino.
  • Amen.

A bizzeffe

gio. 13 novembre 2008

  • A bizzeffe!
  • La butti sul quantitativo, oggi. Ti facevo più qualitativo, con questo bel sole autunnale.
  • Dici? Secondo me a bizzeffe ha anche un retrugusto qualitativo, come il sangiovese.
  • Ah, dici che se lo giro abbastanza a lungo nel bicchierone a palla salta fuori un profumo che mi era scappato al primo sorso?
  • Mah? Bisognerebbe provare, ma non è mica facile trovare il bicchiere adatto per delle parole..,
  • … così obsolete.
  • Chissà se c’è una valle chiusa, di quelle scomode da raggiungere, dove i montanari ti sparano degli abizzeffe come niente fosse?
  • Hai notato anche tu? E nessuno ci fa caso, come fosse la cosa più normale del mondo. Che sia per la claustrofobia? Il sole tramonta presto, a tradimento, dietro i monti e…
  • … tutti corrono a chiudersi in casa prima che venga buio e si mettono subito a mangiare la polenta davanti al focolare…
  • … senza televisione.
  • Che sia per quello che parlano ancora così bene?
  • Di sicuro! Si sono salvati dagli elefanti di Annibale e dalle legioni romane, ma se avessero la televisione in casa ti saluto che parlerebbero così pulito.
  • E i libri? Quelli gli arrivano?
  • A dorso di mulo, però e solo stagionati. Roba buona.
  • Dei classici, solo dei classici. Non vorrai mica che carichino un povero disgraziato di mulo, con tutta la salita che ha da fare, con “Dove mi porta il cuore”?
  • E’ una legge di natura come diceva Darwin: per aspera ad astra.
  • Chissà se parlava veramente latino come un libro stampato?
  • Sia come sia, doveva avere una pronuncia infame, ci puoi scommettere. Forse avrebbe fatto meglio ad accontentarsi del suo inglese.
  • Natura non facit saltus! Un inglese che parla latino… è contro natura. Avrebbe dovuto saperlo proprio lui per primo, ti sembra?
  • A bizzeffe.

 

Duomo di Modena

Capitello romanico del duomo di Modena