Eremo di Ronzano

Tornando a casa dopo aver pranzo fuori in una gradevole giornata di sole, abbiamo deciso di andare a cercare Santa Apollonia di Mezzaratta lungo la ripida salita dell’Osservanza, celebre, quando ero ragazzo, per provare le capacità arrampicatrici delle moto.
“Va su per l’Osservanza in seconda, senza tirarle il collo” era un buon voto per una  moto leggera di allora.
A metà della salita, mezza (t)ratta è questo che significa, abbiamo guardato a destra e a sinistra, ma niente da fare. Non l’abbiamo trovata. Ci riproveremo per vedere cosa è rimasto di uno dei tesori del gotico bolognese dopo lo stacco degli affreschi di Vitale da Bologna e Simone dei Crocefissi: fra i maggiori maestri del trecento bolognese. Quanto rimane degli affreschi e delle sinopie dopo lo stacco è ora ospitato molto degnamente nella pinacoteca nazionale di Bologna dove è stato riposizionato con diligenza in un ambiente che riproduce fedelmente quello originale di Mezzaratta. Purtroppo gli affreschi sono molto rovinati e in larga misura perduti. Quanto rimane è sufficiente per far rimpiangere amaramente la rovina in cui è caduto questo capolavoro. Sull’argomento ritornerò più ampiamente e in modo più documentato.
Per consolarci del mancato ritrovamento, ci siamo tuffati alla ricerca dell’eremo di Ronzàno attraverso le strette stradine dei colli bolognesi, meno battute, per fortuna, di quelle fiorentine, ma non meno gradevoli.

Eremo di Ronzano

Frequentato fin dall’età del ferro e poi da Etruschi e Romani, ora è un piccolo complesso abitato da una sparuta comunità religiosa cattolica: i servi di Maria. In una bella giornata di primavera è un paradiso silenzioso e profumato: imponenti querce secolari, castagni, allori, oleandri, pitosfori in fiore, monumentali cipressi mediterranei in duplice filare e, dovunque, morbidi declivi di prati fioriti di margheritine. Fin troppo!
In compenso la chiesa è una struttura modesta con affreschi parietali (vedi foto sopra) in gran parte perduti e di qualità non superba, giudicando da quanto è rimasto. Il portone era spalancato per fare entrare l’aria tiepida e il sole e sconfiggere l’umidità, subdolo nemico di pietre e dipinti.
Nessun umano in vista: ottimo!
Riprendendo l’auto, siamo riusciti a rientrare a casa restando sempre in quota su deserte strade collinari, evitando il traffico cittadino, in agguato poco sotto.

Pilgrim

Il problema della notte successiva ad un film che attribuisce un ruolo importante ad un animale e ricordarsene il nome. Naturalmente non sto parlando di Lassie o di Rex: i cani che compaiono addirittura nel titolo, ma quello di cavalli, tori ecc. importanti, ma non troppo.
Per qualche strano meccanismo, al risveglio del mattino dopo il film, comincio a rimuginare per cercare di riconquistare il nome del maledetto animale. E’ il caso di Corinto, il toro del film di Mazzacurati che non sono mai riuscito a vedere per intero perché troppo ansiogeno per i miei gusti, o di Pilgrim il cavallo sopravvissuto a stento ad un incontro troppo ravvicinato con un TIR.

 

Redford, regista, produttore e attore protagonista di “L’uomo che sussurava ai cavalli”, che ho rivisto per la prima volta dall’inizio ieri sera, sussurra alcune volte nel corso della prolissa storia il nome dello sfortunato equino, ma vattelo a ricordare il mattino dopo, al risveglio o, anche più comodamente, dopo caffè e bagno. Niente da fare.
Per fortuna c’è Wikipedia, “sia benedetta la sua mano”, che a differenza di Mymovies, non si sbilancia su giudizi critici, ma è servizievolmente precisa nel raccontare la trama, compresi i nomi&cognomi di eventuali bestioni presenti.
Come faremmo a ritrovare la pace mentale senza “Wiki”, per gli amici?

Tortellini parrocchiali

Il primo Maggio, a distanza di circa sei anni, siamo tornati a Castelvetro e, questa volta, ci siamo fermati a mangiare in piazza dove hanno aperto un caffè-ristorante proprio di fianco alla chiesa del borgo alto che io vedevo quotidianamente a inizio carriera quando ricevetti l’incarico annuale d’insegnamento alle scuole medie di quel gradevole paesino pedemontano modenese. 

Ho già parlato di quella simpatica esperienza in un mio precedente blog e non voglio ripetermi. Se vuoi, puoi leggerlo qua
La giornata era bella e i pochi tavoli all’aperto si sono presto riempiti di gitanti che avevano raggiunto l’isola pedonale salendo a piedi in abiti primaverili o mascherati da ciclisti della domenica su costose biciclette da montagna.
Dopopranzo, visitate le toilettes pretenziose del bar “L’eglise” (sic) in stile giovanilistico-barocco, siamo entrati anche nella chiesa pseudo-gotica di fine ottocento, caratterizzata da enormi colonne, del tutto sproporzionate al compito di sorreggere gli archi acuti delle tre navate, di normali proporzioni paesane.
Tuttavia, la cosa più notevole dell’interno non sono le colonne gigantesche, ma il manifesto affisso bene in vista vicino al portone centrale che aiuta il visitatore a calarsi nell’autentica atmosfera del luogo.
tortellini parrocchiali

Clicca qui per vedere alcune mie foto di Castelvetro e dintorni.


Trame celesti

Con segni e disegni trasformava i sogni in trasparenti trame celesti

Sogno di S.Romualdo

Pinacoteca nazionale di Bologna
“Sogno di San Romualdo” di Pseudo Jacopino
liberamente adattato al testo
Clicca la foto per vedere l’originale

Affreschi nella Pinacoteca Nazionale di Bologna

Fra i tanti impareggiabili vantaggi della vecchiaia c’è anche quella di entrare gratuitamente nei musei nazionali; tra questi c’è anche la pinacoteca nazionale di Bologna che si trova in zona universitaria ed è molto comoda da raggiungere e frequentare.
Ieri, subito dopo pranzo, ci siamo tornati per rivedere solo alcune delle cose più amate e anche per fotografare qualche pezzo fra i più gradevoli e meno rappresentati in rete; in particolare alcuni affreschi staccati da palazzi bolognesi e la bella collezione di tavole trecentesche.
Le riprese fotografiche si sono svolte senza difficoltà o disturbo alcuno, infatti si può liberamente fotografare senza essere disturbati dai custodi ed anche la presenza del pubblico dei visitatori, ieri, non era minimamente fastidiosa.

affresco

Dopo cena, ho ripulito e inviato sul mio spazio di Flickr gli affreschi di Niccolò dell’Abate (Modena 1499 – Parigi 1571) staccati da palazzo Torfanini e raffiguranti scene tratte dal VII e da X canto dell’Orlando furioso di Ariosto. Lo stato di conservazione non è certo perfetto, tuttavia ci sono alcuni frammenti relativi agli episodi di Ruggero e Alcina molto gradevoli che ho inviato in rete nel loro insieme ed anche ingrandendo alcuni dei particolari più suggestivi.
Cliccando qui o sulla foto li potrai vedere fin d’ora; nei prossimi giorni il set d’immagini si arricchirà con quanto sarò riuscito a ripulire e impostare.


Mantra

  • Mantra, ti piace come parola?
  • È corta, con la giusta proporzione di vocali, ben intervallate. Non ha aspirate né vocali bastarde che costringano la bocca a movimenti strani. Direi che va bene, insomma. Hai intenzione di usarla spesso?
  • Ci stavo pensando, ma non ho ancora deciso; non vorrei fare il mantra più lungo della gamba.
  • E come pensavi di adoperarla? così nuda e cruda, invece del solito “cazzo”, ormai sulla bocca di tutti, o a sorpresa all’interno di un discorso lungo, come un gheriglio di noce in mezzo all’insalata?
  • All’inizio, potrei provare ad usarla in pubblico e poi decidere in base alle reazioni. Un approccio graduale: in mantra stat virus.
  • Virtus, vorrai dire.
  • Sarebbe meglio, ma mi sono adattato: tanto se dico virtus il mio correttore automatico me lo sostituisce a tradimento con virus. O non sa una mantra di latino o ha la vocazione dell’untore. In tutti i modi, meglio non sottilizzare, ti sembra?
  • Naturale. Ma, tornando a noi, vorresti cominciare piano, piano, un mantra alla volta; fammi un esempio, però, per farmi capire meglio.
  • Be’ potrei entrare in un bar e dire, così a mezza voce mentre aspetto il caffè, “Mantra, che bel freschetto che è venuto, oggi” e vedere che mantra fanno.
  • Ah, ho capito. Se ti rispondono senza batter mantra che invece ieri si stava meglio, potresti azzardare un: “Proprio, c’era un sole della mantra e neanche un filo di nebbia.”
  • Ecco, poi potrei ordinare un sandwich al prosciutto e formaggio, senza mantra.
  • Questo è già più azzardoso: metti che li abbiano già preparati tutti con la mantra spalmata d’ufficio sul pane, come faresti? Ti toccherebbe restare  senza panino.
  • Non c’è mantra senza spine, caro mio. Lo mangerei così com’è, tanto più che non mi dispiace la mantra con il prosciutto. Naturalmente dev’essere fresca di giornata.
  • Comunque sarebbe un rischio minimo, perché a quell’ora è quasi impossibile che abbiano finito tutti i panini senza mantra, ti sembra?
  • Dico anch’io. Che mantra di bar sarebbe; anche se è vero che oggi incontra molto, perfino con il caviale ghiacciato, scommetto. A me non piace, però, ha quella puzza di pesce…
  • Chi, la mantra?
  • No, il caviale. Sulla mantra niente da dire, specialmente quella giapponese cruda.
  • Paese che vai mantra che trovi. Altroché la manna: ha sempre avuto un giro d’affari ristretto ed è sparita dal mercato fin dai tempi biblici. Invece la mantra… ti rendi conto che fino a qualche tempo fa non sapevamo cosa farcene e adesso sembra che non si possa farne a meno neanche un minuto. Cosa vuol dire l’abitudine.
  • Verissimo, non c’è niente che induca di più all’assuefazione dell’abitudine. Come per i telefonini e più piccoli sono, più la gente si accanisce a volerli, arriveranno a inserirli nell’otturazione di un dente del giudizio, così almeno serviranno a qualche cosa, ‘sti dinosauri dentari.
  • Hai sentito che adesso li fanno di mantra lucida, più duri dei coltelli di ceramica giapponesi?
  • I telefonini?
  • No i denti.
  • Ah, esiste anche il tipo lucido, credevo che fosso solo opaca o, al massimo, setosa.
  • Sì, fino a qualche tempo fa era così, ma ho sentito che c’è già un tipo sperimentale trasparente. Mantra purissima, allo stato cristallino, senza polimeri aggiunti. Pensano di usarla per protesi oculari attive. Conterrebbe una rete neuronale completa in grado di mandare direttamente degl’impulsi fotoelettrici belli chiari al nervo ottico e dopo è fatta: a sviluppare la foto ci pensa il cervello in un lampo.
  • Fantastico, così gli orbi potranno mettere via i bastoncini bianchi e farsi ammazzare anche loro nel traffico come tutti noi altri cristiani.
  • La mantra è uguale per tutti, se dio vuole.
  • Nel campo della fototrasmissione avevo sentito solo parlare di applicazioni da discoteca. Da quello che leggevo, sembra che, all’ora giusta polarizzino la mantra in sala perché emetta radiazioni ad una frequenza che fa venir voglia ai ragazzi di andare a casa.
  • Grande! Ma senza addormentarli, immagino.
  • Si capisce, sono già abbastanza fuori per loro conto. È un’applicazione ecologica, reversibile e a costo contenibile o sostenibile, secondo i casi. Sarebbe come il caldo che ti fa venir voglia di fare la doccia: alla fine sei più fresco, più pulito e più contento di prima. Mantra benefica, senza radicali liberi, senza radiazioni ad alta frequenza… niente di niente. Li chiamano dissuasori di stanchezza. Hai mai sentito parlarne?
  • Mai.
  • Be’, se ti capita, adesso sai che con tutto il nome pomposo che gli hanno affibbiato, non sono altro che comune mantra polarizzata.
  • Di mantra in meglio, allora.
  • Tu l’hai detto, finché c’è mantra c’è speranza.

Multe salate a chi paga il biglietto

Camminare  mi piace, mi è sempre piaciuto. Anche correre in campagna mi piaceva, ma per questa abitudine, più saltuaria e impegnativa, è definitivamente passata la stagione. Soltanto durante l’estate cammino poco. D’estate vado in bici, solo in bici potrei dire. Quando arriva il caldo, o una delle nipotine che vivono a Parigi, ci trasferiamo nella nostra casa in un piccolo paese sulla riva dell’Adriatico, il mare nostrissimum, dove la bicicletta è il solo mezzo di trasporto sensato e piacevole. Il resto dell’anno, se posso, mi muovo a piedi, sia quando sono a Bologna, mia residenza preferita, sia quando sono a Parigi, dove trascorro qualche tempo per stare in affettuosa compagnia delle mie nipotine e dei loro genitori. I mezzi di trasporto pubblici li uso poco, molto poco, ma quando mi servono non posso evitare di notare la grande differenza fra quelli bolognesi e quelli parigini.
A Parigi sugli autobus si sale solo dalla porta davanti, uno alla volta e si esibisce all’autista il proprio abbonamento o si compra da lui il biglietto. Tu gli dai le monetine e lui ti da un biglietto a validità oraria e il resto, se occorre. Nessuno sale da altre porte e senza esibire o comprare il biglietto che occorre per usufruire di un servizio che è pubblico, ma non gratuito.
A Bologna in teoria le cose sono molto simili. Si deve salire solo dalle porte abilitate e si deve timbrare un tesserino da dieci corse o comprare un biglietto orario singolo da un’apposita macchinetta senza alcun coinvolgimento dell’autista che non deve controllare neppure gli abbonamenti.  In teoria, quindi, la sola differenza sta nell’aver sostituito l’autista, nella funzione di timbrare o vendere il biglietto, con un piccolo marchingegno, senza alcuna capacità di  verifica o controllo sulla correttezza dei viaggiatori. 

autobus

Il risultato è che moltissimi salgono (anche dalle porte abilitate alla sola discesa) e scendono senza pagare il biglietto, nella totale indifferenza dell’autista che, come il famoso viandante, “guarda e passa”.
Il fenomeno, incoraggiato dalla scarsissima probabilità di essere multati dai pochissimi controllori, è talmente vistoso da lasciare a bocca aperta i pochi volontari che, come me, si ostinano a comprare il biglietto, con un evidente spirito di trasgressione, quasi di ribellione sociale.
Forse un giorno non lontano l’amministrazione comunale e la società dei trasporti uniranno virtuosamente i loro sforzi e istituiranno un occhiuto corpo di polizia speciale, per sgominare i pochissimi ribaldi che si ostineranno a pagare il biglietto con sfrontato atto di ribellione civica.

Siamo nati per camminare

Oggi pomeriggio, nel tornare a casa a piedi dalla biblioteca, ho notato tre nuovi “alberi” di compensato nell’atrio circolare. Si tratta di espositori a forma di alberello stilizzato pensati per accogliere bigliettini di carta, fissati con una puntina da disegno.
I foglietti sono “opere” di bambini delle materne o elementari che hanno disegnato se stessi mentre camminano sotto la scritta “Siamo nati per camminare” che è, appunto, il titolo di una campagna di sensibilizzazione alla buona abitudine di muoversi a piedi, quando è possibile, fin da bambini. 

 

nati per camminare

Molte volte i genitori accompagnano a scuola i bambini in auto, senza una vera necessità, ma con conseguenze anche molto sgradevoli per che si trovi a dover passare per le strade “bloccate” da padri e madri che scaricano o caricano il loro pargoli che avrebbero molta più voglia di camminare o di correre che di salire sul gippone parentale per arrivare in apnea nel chiuso di casa loro.
Già da decenni, nonni-volontari assistono i bambini ad attraversare le strisce nelle strade vicine alle scuole elementari e forme di reciproca assistenza possono alleviare anche l’obbligo quotidiano di accompagnare e, soprattutto, di ritirare dalle scuole materne i bimbi più piccoli che non possono andare da soli.
Spesso è solo una questione di mentalità e di organizzazione e, quindi, ben vengano le campagne che aiutano a vincere la pigrizia mentale, molte volte il solo vero ostacolo ad assumere buone abitudini.

Dacci oggi il nostro tubo quotidiano

Gli ungulati si riprendono i boschi

Gli ungulati, non i cingolati, si stanno riprendendo i nostri boschi, stando ad un paginone di La Repubblica di ieri. Meno male, potremmo dire, meglio cervi, camosci, daini e cinghiali che i carri armati. Non c’è dubbio. Perché poi abbiano messo insieme nello stesso mazzo cervi e cinghiali, timidissimi gli uni, sfrontati e aggressivi gli altri, con il pretesto di unghiotti robusti ai piedi, è un mistero.
Resta il fatto che i boschi stanno ritornando a popolarsi di quegli animali che li hanno sempre abitati insieme con i pochi uomini che condividevano le terre emerse con loro.
C’è da preoccuparsi? Non direi; come al solito, basta non esagerare. Per decenni abbiamo sentito le litanie sullo spopolamento: la foca monaca, la foca monaca! Adesso rischiamo di esagerare in senso opposto. Finché noi abbiamo le doppiette e i cinghiali no, se esagerano e diventano troppo aggressivi e numerosi una sfoltitina gliela possiamo sempre dare… senza esagerare, naturalmente. La lezione dovremmo averla imparata. Non è più il tempo in cui i cacciatori di bisonti, alla fine di una giornata,  lasciavano sulla prateria agli avvoltoi e agli altri animali spazzini centinaia e centinaia di bufali, riducendo in pochi anni la popolazione di bovini selvatici da tre milioni a poche centinaia.
Da ragazzo, prima di appendere al chiodo la doppietta, partecipai a qualche “cacciarella” nella maremma senese. Oggi si chiamerebbero “operazioni di contenimento della specie”, ma anche allora si trattava di abbattere soltanto alcuni cinghiali vecchi, risparmiando i giovani esemplari.

Erano belle spedizioni, bene organizzate, che coinvolgevano decine fra cacciatori e battitori e almeno un centinaio di cagnolini coraggiosissimi: i veri protagonisti della battuta. L’arrivo di un cinghiale incalzato dai segugini si avvertiva dal rumore che l’animale produceva strisciando di corsa con veemenza contro i cespugli del fitto sottobosco maremmano. L’animale lo si vedeva soltanto all’ultimo e, in un attimo, bisognava decidere se sparargli o risparmiarlo alzando il fucile orizzontalmente sopra la testa. Questo segnale significava: “lasciatelo passare; nessuno spari”, ma non sempre veniva rispettato. Uno scemo fra tanti c’è sempre, ma qui la scemo diventa anche pericoloso e non solo per il giovane cinghiale. Gli altri cacciatori disposti in fila sono pericolosamente vicini e rischiano di diventare il bersaglio involontario.
Se tutto va bene e non ci sono vittime o feriti fra cani –i più esposti- cacciatori e canai, rimangano a terra soltanto alcuni vecchi cinghiali dal muso inequivocabilmente canuto. Com’è noto uomini e maiali (e i loro cugini selvatici) si assomigliano moltissimo e, invecchiando, incanutiscono.

Pegno di laurea

Oggi pomeriggio, uscendo dalla biblioteca nell’affollata piazza del Nettuno ho fatto solo pochi passi prima di essere fermato da una bella ragazzina con la regolamentare corona d’alloro delle neolaureate la quale, con un sorriso timido mi ha chiesto se ero disposto ad ascoltarla brevemente. Al mio assenso ha portato alla giusta altezza per leggerlo un fogliettino che era, in sintesi, una sua breve presentazione. Alla fine della lettura mi ha chiesto se ero disposto ad attraversare la strada sotto la sua guida. Mi sono venute subito in mente le storielle sui boy-scout che, per fare la buona azione quotidiana, costringevano riluttanti “vecchiette” ad attraversare la strada, contro la loro volontà.
Al mio “Volentieri, andiamo” mi ha preso sottobraccio e guidato verso un punto trafficato di via Rizzoli, ma prima che ci avventurassimo perigliosamente nel dribbling fra le auto in corsa, siamo stati raggiunte dalle risate e dalle urla allegre del codazzo dei suoi amici che verificavano la puntuale e completa esecuzione del pegno. “Ma cosa fai? Sulle strisce, va ad attraversare sulle strisce. Ma che scout sei?”

laureata

Nel raggiungere docilmente la zebra pedonale, seguiti dal codazzo dei suoi amici, mi son fatto raccontare l’argomento della sua tesi di laurea. Ho finto di conoscere l’argomento per non deluderla; riguardava una banda Nonsochi responsabile di un eccidio Nonsodove. Mentre le dicevo “Ma certo” mi rammentavo del titolo della tesi in istoria della protagonista dello spassosissimo film di Alain Resnais “Parole, parole”. La giovane laureata in istoria, interpretata da Agnès Jaoui, ironizza amaramente sulla sua tesi che riguardava “I cavalieri contadini del lago Baladour”, o simili, che nessuno aveva mai sentito nominare.
Col favore degli dei, del semaforo verde ed il sostegno del codazzo abbiamo attraversato felicemente via Ugo Bassi ed io sono stato libero di tornare indietro facendo il giro largo, per non essere scortese.
Nel rincasare mi tornava in mente quando una bella mattina di  primavera avevo attraversato il centro di Bologna sostenendo una dipinto di tre metri per due, per dare una mano a due ragazzi e una ragazza che avevano troppa roba da trasportare con sole sei mani.  Li avevo accompagnati dall’angolo di Garganelli fino all’Accademia in via Belle arti dove erano diretti per esporre il dipinto, evidentemente. Alla fine del percorso avevo finalmente guardato il quadro trasportato sotto i portici di mezza città. Era un olio in bianco e nero con dei fantasmini spaziali di altri mondi: bello!


Vecchi giocattoli

Da un paio di settimane, sono cominciati nella biblioteca Sala borsa i lavori di allestimento di una mostra di giocattoli che un collezionista ha reso disponibili per alcuni mesi. La mostra è stata inaugurata lo scorso fine settimana, ma rimarrà aperta per mesi e avrò tutto l’agio di guardarla e riguardarla entrando o uscendo dalla biblioteca, dopo le mie consuete letture pomeridiane.
I lavori di allestimento degli spazi destinati ad ospitare i giocattoli sono stati lunghi e molto rumorosi nella fase iniziale, poi, sostituiti i falegnami con gli imbianchini e gli imbianchini con i vetrinisti, il rumore è andato diminuendo e i primi giocattoli sono comparsi in disposizioni provvisorie, in attesa di trovare casa definitivamente per alcuni mesi.
Con il telefonino sempre presente nel taschino, ho ripreso alcuni degli assetti provvisori dei primi giocattoli collocati negli stand e potrai vederli come sequenza di diapositive cliccando qui o sulla foto; infatti si trovano in rete nel mio spazio di FLICKR.
cavalli a dondolo
Prima di dare un giudizio definitivo sulla mostra, voglio aspettare di averla guardata con calma, ma la prima impressione che mi ha fatto gran parte dei giochi di legno verniciato esposti è stata di malinconia. Mi sono sembrati gli onesti rappresentanti di un’epoca dei grandi ristrettezze economiche. Giocatoli bruttini per pochi privilegiati.
Della mia infanzia, ricordo:
  • un orsacchiotto,
  • un Pinocchio snodato di legno dipinto, 
  • una frusta corta da barrocciaio con la quale fare viaggiare il frullo di legno, 
  • un bastone lungo tre spanne per far saltare un legno biconico lungo quattro dita, che nel dialetto ostrogoto della mia infanzia chiamavamo sciancol-vegna; 
  • le palline di terra cotta (3 per 1 lira), 
  • una fionda, fabbricata con le mie mani con la biforcazione di un ramo di olmo e due anelli di camera d’aria da camion;
  • il preziosissimo temperino; 
  • il pallone; 
  • il tavolo da ping pong e, soprattutto, 
  • la bicicletta, cambiata di tempo in tempo per adeguarla alle crescenti misure delle mie gambe.
Quello che contava, era giocare con gli amici al pallone o a ping-pong o correre in bici o a piedi a più non posso.
E i giocattoli? Ma?