Sincronizzazione

Pare che al Quirinale ci siano più di mille orologi che un orologiaio a tempo pieno mantiene carichi e “in forma”, non occupandosi di niente altro. A casa mia la situazione è più semplice perché gli orologi meccanici sono finiti tutti in un cassetto, eccetto quello a pendolo di mio nonno che continuo a caricare e regolare settimanalmente, ma in modo rilassato, senza bisogno di particolari attenzioni o cure.  Quello che guardo più spesso di giorno è lo swatch da polso che non tolgo mai, neppure quando faccio un bagno nell’acqua salata del mare o in quella calda e spumosa della vasca da bagno.  Di notte, invece, guardo l’ora a sinistra su di un display a cifre rosse appollaiato su di una pila di libri oppure a destra sulle grandi cifre proiettate sul muro da un Oregon radio-controllato che fornisce anche la temperatura ambiente. In caso di black-out si spengono entrambi, ma quando torna la luce solo quest’ultimo riprende a funzionare ricordando l’ora giusta, mentre il primo si riaccende, ma ha dimenticato l’ora e bisogna imprecare un po’ e schiacciare molte volte scomodi bottoncini per rimetterlo al passo con l’altro: il sapientone.  

castello di Carpi

  Dopo un black-out va riaggiustato anche l’orologio del forno a microonde, ma questo dispone di comandi a rotazione, comodi quasi quanto la corona di un vecchio orologio meccanico. Il pendolo del nonno, da vecchio saggio, non si scompone per una sciocchezza come l’interruzione della corrente elettrica, diavoleria del tutto assente nella sua prima casa, quando era giovane. Ci vuol altro, per fermarlo.  Della stessa tempra, insensibile ai capricci della rete elettrica, è l’ultimo arrivato: l’orologio del telefonino, a patto di alimentarlo ogni notte con una flebo che lo ricarichi e gli dia lo sprint per affrontare un intero giorno di veglia e di lavoro. L’ho regolato in modo che suoni ad ogni ora, come il pendolo. Allo scoccar dell’ora si fa vivo con un bel campanello squillante che coglie di sorpresa gl’ignari presenti. Se mi trovo in un luogo pubblico dove la presenza di un vecchio orologio da muro è poco più probabile di quella di un asino parlante è spassoso vedere gli sguardi dei presenti scannerizzare le pareti alla ricerca di un orologio da muro e, alla fine, desistere delusi dalla ricerca. Prima d’istallare la campanella oraria con il suo singolo suono squillante, avevo attivato una divertente applicazione che riproduceva il carillon più celebre del mondo: quello della torre di Elisabetta nel palazzo di Westminster, sede del parlamento inglese, comunemente detto Big Ben. Sentire uscire dal taschino l’intera tiritera del carillon di Westminster ad ogni ora del giorno, però, era troppo perfino per me: il trisnipote del costruttore dell’orologio ottocentesco della torre del castello di Carpi che vedi nella foto.

Il risveglio

Il momento del risveglio può essere lungo e piacevole, quando i decenni di vita trascorsi sono parecchi e non ci si deve più alzare in fretta per andare a scuola o al lavoro. Non è solo un limbo fra il sonno e la veglia, ma anche fra il presente e il passato. Piuttosto latitante è, invece, il futuro, comprensibilmente.
Quali siano gli stimoli che durante il risveglio richiamano eventi, circostanze, abitudini del passato è difficile da dire, quanto lo è immaginare la causa dei sogni, sempreché non si creda alle premonizioni che fecero la fortuna di Giuseppe presso il Faraone o alle interpretazioni di Freud e compagni, in tempi moderni.
Personalmente non ho temi ricorrenti che si ripetono ossessivamente, come nel film Marnie di Alfred Hitchcok, ma qualche atmosfera preferita, che si riaffaccia alla memoria durante il risveglio più spesso di altre, sicuramente c’è.
Questa mattina, ad esempio, ripensavo ai viaggi in treno del primo giorno di vacanza, per raggiungere da Roma -la città della scuola- la vecchia grande casa di famiglia a Carpi -la casa delle vacanze-. Là mi attendeva un’accoglienza affettuosa, ma non oppressiva, la bicicletta, il tavolo da ping-pong in cortile e una banda di compagni con cui giocare in strada o nelle vicine campagne.
“Il viaggio verso la libertà” durava cinque ore e mezza o sei e si svolgeva su di un elettrotreno con vagoni a scompartimenti chiusi da Roma a Modena: il cosiddetto direttissimo Roma-Milano e, dopo una sosta a Modena, terminava con un breve percorso di mezz’ora fino a Carpi.

 

locomotiva

Normalmente, questo ultimo tratto era servito da una “littorina”: una modestissima motrice diesel dal colore deprimente e con un anacronistico nomignolo fascista. Qualche volta però, imprevedibilmente, i pochi vagoni con sedili di legno del treno per Carpi-Suzzara-Mantova erano trascinati da un’autentica locomotiva nera a vapore: una meraviglia agli occhi di un bambino come me.
Non la si poteva leccare con profitto e, pertanto, non appagava il gusto, ma accontentava tutti gli altri sensi. Era bellissima da vedere, sbuffava fuoco e fiamme come un drago, faceva un rumore cadenzato e ritmico come un grosso cuore di mamma e sprigionava un elettrizzante profumo di fumo, fuliggine e vapore, mescolati sapientemente come nessun “naso” di Grasse saprebbe inventare.
Credo che la nera vaporiera sia una delle componenti essenziali del piacevole, ricorrente risveglio intitolato “Primo giorno di vacanza”

A piedi in mezzo a strada Maggiore

A distanza di mesi, dopo le vacanze estive, ho ripercorso Strada maggiore, il tratto della via Emilia che collega le due torri di Bologna a porta Maggiore. Ho camminato a piedi proprio in mezzo alla strada, temporaneamente pedonale per i lavori di pavimentazione non ancora completati, come previsto ed annunciato.

E’ stato uno spasso passeggiare sulla bella pavimentazione ancora intatta, nel confortevole silenzio dovuto al traffico assente, fra pochi pedoni e ciclisti. Ogni tanto, ci sono simpatiche isole di tavolini da caffè, giustamente allestiti in mezzo alla strada, come si può vedere dalle foto che ho scattato oggi pomeriggio.
Sarebbe bello che la pedonalizzazione diventasse permanente, ci guadagneremmo tutti in pace e salute.
E gli autobus? mi si dirà. Se vogliono passare di lì, imparino a volare e se non sono capaci, cambino strada.

Bologna – strada Maggiore

Da piazza a piazzale

Con una certa ingenua sorpresa, mi sono ritrovato, anche oggi, piazza maggiore ingombra e abbruttita da un enorme struttura in tubi di ferro (chiamiamolo palco) e da due torri pubblicitarie che vanno ad aggiungersi allo sconcio permanente del palazzo del podestà ricoperto da cartelloni pubblicitari.
A memoria mia non si era mai raggiunto un livello di sfacciataggine così arrogante nel degradare la piazza più simbolica di Bologna al livello di un volgare piazzale di estrema periferia, buono solo per affissioni giganti.
Anche di questo degrado dobbiamo ringraziare la lungimirante amministrazione comunale.

 

Bologna – piazzale maggiore

Ladri di biciclette

Dal dopoguerra ad oggi il nostro paese è cambiato non poco e sembrerebbe che le vicende raccontate da “Ladri di biciclette”, il capolavoro del ’48 di Vittorio De Sica, fossero del tutto anacronistiche e, per molti aspetti, lo sono, ma le biciclette continuano ad essere rubate, seppure da personaggi diversi dal padre di famiglia che, senza bicicletta, perderebbe il solo prezioso lavoro che è riuscito a trovare.

I soli emiliani che non hanno subito uno o più furti di bicicletta sono quei pochi che non ne hanno mai posseduta una.
Io, nel mio piccolo, sono a quota cinque e non sei perché durante l’ultimo tentativo d’nvolare la mia bici dal giardino della casa al mare hanno forato la gomma posteriore sulla siepe metallica, come è stato facile ricostruire. Nella stessa occasione hanno, invece, rubato quella di mia moglie, ennesimo rimpiazzo di precedenti bici rubate nel corso degli anni.

bici senza sella

Nel rientrare a casa a piedi, oggi ho fotograato questa gloriosa Atala assicurata con due solide catene che immobilizzano le due ruote collegandole al telaio e incatenano l’intera bici ad un palo di ferro, posto all’angolo fra via Santo Stefano e vicolo Pusterla, nel pieno centro frequentatissimo di Bologna.
La sella non l’aveva potuta legare, il prudentissimo possessore di una vecchia comunissima bici da uomo … e gliel’hanno rubata.
Se ci fosse una legge del contrabbasso, molto più accomodante del contrappasso dantesco, il ladro, scivolando dal maltolto, dovrebbe scheggiarsi dolorosamente un incisivo e finire in una bella pzzanghera fangosa.
Da parte del vasto popolo dei biciderubati, glielo auguro di cuore.

L’asino di Esopo

Anche se dell’evento difficilmente parleranno le storie patrie, oggi ho preparato “l’aglione” per la stagione invernale che trascorreremo nella casa di Bologna. C’è chi lo chiama in altri modi, ma a casa mia si è sempre definito aglione quella profumata mistura di sale grosso, aglio e rosmarino fresco con la quale si insaporiscono le carni arrosto o alla griglia. Di solito, la quantità che preparo in questa stagione dura finché non è ora di cambiar casa e andare al mare dove conviene prepararne un barattolino con il rosmarino del giardino, bello fresco e pimpante, che basti fino alla stagione dell’uva, quando si torna in città.

Nel prepararlo è meglio chiudersi in cucina, se non si vuole inondare la casa intera di un appetitoso, ma non sempre opportuno, aroma di arrostino. L’operazione non richiede alcuna abilità e anche i tempi di preparazione si sono ridotti moltissimo da quando sono comparsi quei frullatorini con il recipiente trasparente che mostra la brutta fine che fanno, in un attimo, i pezzettini di aglio e le foglioline di rosmarino riducendosi in una poltiglia verdina salata e profumatissima.
asino di Esopo
Mentre asciugavo il barattolo del sale, completamente svuotato e facilmente lavato, mi è tornata in mente la favola di Esopo dell’asino che cade accidentalmente nel fiume mentre trasporta un pesante carico di sale e riemerge sollevato dalle acque, ma annega travolto dalla corrente quando, credendo di alleggerirsi, si lascia cadere apposta, mentre trasporta un carico di spugne anzichè di sale.
Esopo conclude:”Allo stesso modo gli uomini non si accorgono che spesso sono le loro stesse azioni a rovinarli.”
Fra me e sè, invece, pensavo che di asini che fanno i furbi ne ho incontrati dozzine, ma non ne ho mai visto annegare nessuno.


Strada Maggiore

Stanno sbucciando e ripavimentando Strada Maggiore: il tratto della via Emilia bolognese dalle Due Torri a Porta Maggiore e per farlo impiegheranno circa sei mesi. “Se otto o_oore, vi sembran poche, venite voi a laaavorar…” dice la celebre canzone. 

Ho dato una controllatina, per sicurezza, e ho trovato conferma alla mia incerta memoria: Marco Emilio Lepido, senza ruspe,  impiegò due anni (189-187 a.e.v) a completare le 176 miglia romane che andavano e vanno da Piacenza fino al porto militare di Rimini. La via Emilia è ancora lì, più o meno sempre la stessa, e continua ad essere percorsa avanti e indietro per tutta la vita da noi emiliano-romagnoli nati negli ultimi milleduecento anni e chissà da quante altre generazioni ancora, in futuro.
Problema:
Il tratto di strada che ora stanno rifacendo in sei mesi di tempo e con abbondanza di bulldozers a disposizione è circa mezzo miglio romano; così stando le cose, quanti anni avrebbe impiegato Marco Emilio Lepido a completare le 176 miglia, se fosse stato fornito delle moderne attrezzature?
 
Strada Maggiore Bologna
Gli omenoni di Palazzo Davia Bargellini guardano sconsolati la mesta strada disfatta
e senza passaggio di pedoni, proprio adesso che stavano per fiorire décolleté  e minigonne.

Ortensie celesti

Perché le volessero proprio azzurre e non rosa, come si ostinavano a fiorire spontaneamente non mi era chiaro. Parlo delle immancabili ortensie che si scatenavano in rigogliose fioriture nei giardini delle nonne dei miei amici, all’inizio delle vacanze scolastiche estive. A me non piacevano un gran che.

Che senso ha un fiore senza profumo, direbbe Alice dopo aver abbandonato sul prato un libro senza figure?

Spesso negli stessi giardini e alla stessa stagione c’erano meravigliose siepi di gelsomini, bianche di fiori profumatissimi, o spalliere di caprifoglio meno appariscenti e altrettanto profumate, ma “le nonne” sembravano prestare attenzione solo ai trucchi caserecci per fare diventare azzurre le ortensie che, in qualche caso, effettivamente apparivano, con gentile condiscendenza, accanto alle riottose sorelle rosa.
Alla base ci deve essere il solito istinto perverso che, cent’anni fa, prima dell’avvento delle tinture  per capelli libere&gratuite, facevano fischiare per la strada i meridionali al passaggio di una bionda e costringevano le giovani contadine a infarinarsi la faccia abbronzata prima di andare a ballare per sembrare bianche come “le signore”.
Per la stessa ragione, oggi, le biondissime signore si abbronzano faticosamente estate e inverno producendo quell’effetto straniante di sano immaginario o addirittura di negativo fotografico che lascia perplessi i dobermann di passaggio, così tradizionalisti nel loro rigore morale.

ortensie
Le rigogliose ortensie della foto scattata ieri sono in un giardino privato
di via Marella nel percorso fra casa mia e i giardini Margherita di Bologna.

Bassano del Grappa

Ieri siamo andati a Bassano. La ragione della scelta di questa meta per una gita di un giorno non la so e non ho chiesto, non tanto per discrezione, ma perché non m’interessa molto. Come dice il saggio: “Ci sarà una buona ragione”.
A memoria mia, molto incerta, ci ero stato una sola volta da bambino al ritorno da una villeggiatura con mia zia I. All’epoca, andavamo un paio di settimane d’agosto con il CAI di Carpi in una località alpina diversa ogni anno. Il club affittava un intero albergo e i soci potevano andarci durante l’estate per un paio di settimane o più in un’atmosfera simpatica e amichevole. Quando passammo da Bassano, al ritorno dalla villeggiatura, dovevamo essere stati in Trentino, dove di preciso non lo so, ma credo che sia stata la volta in cui giungemmo a Venezia, con il pullman che ci riportava a casa. Era il tramonto di una bella giornata estiva e l’impressione della laguna che ne ricavai fu così forte che la conservo ancora a distanza di una vita. A due ore di macchina o di treno da casa, Venezia è una meta abituale e abbastanza frequente; ci sono tornato mille volte per spasso e anche per lavoro, ma quella prima inattesa visione al tramonto resta indimenticabile, e forse per questo non ricordo nulla della contemporanea visita a Bassano. Neppure il vecchio ponte in legno dove “ci darem la mano ed un bacin d’amor”. In effetti è un manufatto abbastanza originale per aspirare alla categoria dell’”indimenticabile”, ma così non è stato, per me. Pare che dalla versione disegnata dal Palladio ce ne siano state diverse successive, dovute alle ricorrenti piene del fiume Brenta che in momenti di particolare euforia lo travolge o lo danneggia gravemente.

Il ripristino più recente e tuttora in piedi è quello del 1968 dopo i danni causati dalla piena del ’66, quella che tutti ricordiamo per l’alluvione dell’Arno a Firenze. Ieri era infiocchettato al massimo con bandiere italiane appese ai travi e vasi di gerani rossi sul pavimento di pietra.
Il resto della cittadina ha un’aria trascurata, molte vecchie case e palazzetti del centro storico sono in semi abbandono. Disabitati i piani superiori, tutte le imposte chiuse, un solo negozio al pianterreno con paccottiglia per turisti e… grappa. Non c’è nulla che si salvi dalla contaminazione con il distillato prediletto dai bassanesi. Qualunque manufatto commestibile è, immancabilmente, “alla grappa”.
L’umore era buono, la giornata bella, non troppo calda, le torme di vecchie turiste infestanti con zainetto e doppi bastoni ultraleggeri non troppo numerose e alle sette di sera eravamo già a casa in tempo per cenare all’ora giusta. Penso che sia stata l’ultima visita a Bassano di questa vita e neppure questa si rivelerà indimenticabile, presumo.

Ecco alcune mie foto scattate ieri a Bassano.

Toc toc…

Toc toc..

Palazzo Montanari Bologna

Maniglioni a forma di diavolaccio draghifago del portone di palazzo Aldrovandi Montanari
in via Galliera 8 – Bologna

 

A sinistra il profilo di uno dei due maniglioni di palazzo Montanari
A destra il maniglione unico con sirene e delfini di palazzo Felicini Fibbia
in via Galliera 14 – Bologna


Pentole e coperchi

  • Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”. L’hai mai sentita questa?
  • Sì, di solito piazzata al termine di una storia in cui una soperchieria, alla fine, veniva a galla ed il malandrino che credeva di averla fatta franca, veniva scoperto.
  • Appunto, il diavolo-malandrino non aveva saputo tenere coperta la sua malefatta perché non aveva saputo fare il coperchio alla pentola che avrebbe dovuto tenerla nascosta.
  • E allora?
  • Mi domandavo chi faceva i coperchi. Il diavolo no, come abbiamo saputo, ma non conosco nessun detto popolare che colmi la lacuna.
  • Se in fretta in fretta vuoi far l’acqua bollire, l’angelo del coperchio devi fare venire.
  • Mai sentita. Quindi sarebbero gli angeli gli artefici e distributori dei coperchi, secondo te?
  • Per forza: demoni pentolari, angeli coperchiari. Rispettare le gerarchie e le funzioni in cielo e in terra. Gli uomini di buona volontà, il sudore della fronte, prima che il gallo canti tre volte ecc. Vorrai mica scherzare?
  • Sarà, ma per non sapere né leggere né scrivere, io uso un bollitore elettrico monoblocco: niente pentola né coperchio…
  • … e ci scommetto che non hai nemmeno una gatta che va tanto al lardo…
  • … neanche il lardo. Era buono, però, con il suo strato di sale sopra, ricordi?
  • Altroché, in qualche trattoria lo servono ancora con le crescentine, ma è diventato una raffinatezza.
  • Come le pentole a pressione con il coperchio incorporato a valvole che nessun diavolo potrà mai scordare.
  • Non c’è più religione.
Inferno

L’immagine è un particolare del dipinto del 1435 “Paradiso e inferno” del pittore bolognese Maestro dell’Avicenna.
Si trova nella Pinacoteca nazionale di Bologna