Da noi, si chiamano sfrappole

5
(1)

Il nome più diffuso per il dolce di carnevale più semplice e più popolare in Italia è chiacchiere, ma come altre buone cose, profondamente radicate nei costumi locali, cambia nome di paese in paese, pur conservandosi immutato. C’è chi le chiama frappe, chi bugie, ma anche sfrappole, cenci, lattughe, galani e crostoli.
In una ristretta area fra il Secchia e il Mincio, dove la pianura emiliana si fonde nella nebbia invernale con quella lombarda, si chiamano rosoni.
Ricordo che nella vecchia casa di famiglia a C., dove trascorrevo “a piede libero” parte delle mie vacanze di bambino di città, si preparavano in un modo diverso da quanto continuiamo a fare , ancora oggi nella casa di città.
La mia vecchia prozia M., cuoca insuperata nei ricordi e nei fatti, tagliava la sfoglia dolce in tagliatelle larghe un dito e lunghe poco più di una spanna e le gettava, flosce e manovrabili, in un profondo pignattino di terracotta smaltata, dove friggeva lo strutto. Prima che indurissero, riusciva ad annodarli con l’aiuto di due stecchi ricavati dalle fascine, suscitando la mia incondizionata ammirazione, superata solo dal piacere di mangiare il risultato di questa sua abilità. Erano eleganti nodi di Savoia, leggeri, croccanti, belli da vedere e buoni da mangiare, caldini e spolverati di zucchero a velo.

Noi, oggi li facciamo nella forma più tradizionale, rombi di sfoglia con due tagli e sono forse altrettanto buoni, specialmente se evitiamo di cospargerli di abbondante bicarbonato, scambiato per zucchero a velo. La scena degli ospiti che, dapprima sorpresi, poi divertiti, soffiano ovunque il bicarbonato per addentare le sfrappole, tornate quasi nude e pulite, vale la pena di essere goduta, però, almeno una volta nella vita.

Valuta questo testo

Risultato

Non ci sono ancora valutazioni