Sughi, sapa e sapore.

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dom. 20 luglio 2003

Quando veniva la stagione giusta e il sole, la pioggia e il vento leggero di pianura avevano fatto il loro mestiere i grappoli di uva nera finalmente assumevano il colore da cui prendevano il nome. Lungo i filari di olmi, le cui foglie avevano in passato nutrito i bachi da seta, si sporgevano i pergolati simmetrici, belli alti da terra per sopravvivere alle tardive gelate di primavera: temuti soprassalti finali dell’inverno ormai svanito.

Fra le belle foglie fitte della vite, sopravvissute alle potature, pendevano i grappoli di lambrusco salamino, ulivo, lancellotti. dalle dimensioni così diverse da lasciar presagire, fin dal primo sguardo, le diversità di sapore. C’erano grappoli grossi, fitti e pesanti, lunghi una spanna da uomo e grappolini radi che stavano tutti interi nella mano di noi bambini. Erano così invitanti che non si resisteva alla tentazione di mangiarli subito con un sol morso con un moto della testa più vicino a quello di un coccodrillo che a quello di un cucciolo umano.

Niente sgridate, però, e nemmeno un rimprovero fuggevole con gli occhi, anche se la faccia diventava scuretta e appiccicosa: era la stagione in cui le signorine cagionevoli di città venivano mandate in campagna a fare la cura dell’uva.

In queste scorribande al tramonto al seguito di Luisa si riprendeva la bicicletta verso casa solo quando la grande sporta di pavera, destinata ad uno dei corni del manubrio, si era riempita di uva matura e bilanciava l’altra sporta gemella che ospitava, fra un’imbottitura di stracci puliti, le due fiasche spagliate piene di latte tiepido che il contadino aveva preparato per noi.

Arrivati a casa lungo l’argine del canale illuminato dalla luce del crepuscolo bisognava bollire il latte, denso di panna, e pigiare l’uva che non sarebbe finita in tavola per ricavarne un mosto nero, denso e dolcissimo presago di “sughi”, “sapa” e “sapore”: tre delizie che sarebbero durate tutto l’inverno.

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