‘… naio, solfanaio, al sulfaner.’

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mar. 22 luglio 2003

La vita in città s’identificava con la scuola del mattino ed i pomeriggi malinconici nell’appartamento cupo dei giorni feriali, tagliato a metà dall’ingresso enorme. Era un lungo locale poco illuminato da un finestrone ad arco affacciato sulla scala privata, dove i passi rimbombavano nel vuoto, interrotto solo dalle quattro cassapanche secentesche, scolpite con mostruosi animali mitologici da non guardare mai in faccia prima di raggiungere, di corsa, la camera da letto.
A quel tempo dormivo da solo in una stanza quadrata al primo piano, tappezzata di damasco dorato, ricordo di un diverso uso in epoche precedenti. La finestra si affacciava sulla stretta strada del centro, porticata su di un solo lato e miracolosamente scampata ai bombardamenti che avevano distrutto un vicino teatro, aprendo agli occhi dei passanti prospettive inusitate e vasti varchi pavimentati di macerie fino alla chiesa di S. Giovanni in monte, in cima al colle. Il traffico era rado e irrilevante; nelle orecchie conservo solo il ricordo della trombetta ricurva e della cantilena insinuante dello stracciarolo che passava al mattino con il suo carretto: “… naio, solfanaio, al sulfaner.”

Per fortuna, però, veniva il sabato e la fuga nella grande casa di famiglia dei giorni felici di vacanza. La fine angosciosa dalla visita di fine settimana nel grande paese di pianura dove mi aspettava la bici per le sgroppate in aperta campagna, s’identificava nello scampanio lento e sgradevole della campanella che annunciava l’arrivo del treno del ritorno.
Il suono insistente, attutito e diffuso dalla nebbia fittissima, segnava la fine della festa ancor più dell’arrivo della vecchia locomotiva a vapore, nera, che si materializzava allo sguardo solo all’ultimo momento, preceduta dal suono ansimante che le conferiva un carattere quasi animale. Non ricordo nulla del percorso sulle panche di legno della vaporiera fino al capoluogo di provincia e, tantomeno, del successivo tratto, su di un treno elettrico insignificante, fino al capoluogo di regione che m’imprigionava durante i mesi di scuola.
Ricordo invece quando, in pigiama, passavo dalla camera dei miei per augurare la buona notte. Nella penombra diffusa dalla radio Synudine, accesa a basso volume, si sentiva la sigla finale della trasmissione sportiva della domenica: tristissima.

I due bei disegni sono di Emilia

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