Venature della sorte

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Aveva cominciato da bambino, incantandosi a contare gli anelli delle ceppaie rimaste nel vecchio bosco vicino a casa, dopo le periodiche operazioni di sfoltimento. Con l’aiuto del nonno, aveva imparato a distinguere le vicende della vita dei grossi tronchi ormai giunti alla loro fine. Non solo ne scrogeva sempre più chiaramente la sorte collettiva: gli anni di siccità e quelli grassi, ma anche le malattie che avevano colpito alcuni di loro nel corso della loro parabola vegetativa, lasciando indenni altri confratelli poco distanti. Questo interesse affettuoso per i suoi alberi si era trasformato nella persuasione che ciascuno portasse chiaramente scritto non solo il diario della propria vita, ma una mappa del destino ben chiara e leggibile, stampata nelle venature, che li distinguevano individualmente l’uno dall’altro.
Quasi inevitabile fu lo sviluppo di questa sua attitudine alla interpretazione delle linee del destino nascoste nelle venature dei tavoli. Il suo scrittoio, un vecchio tavolone massiccio di famiglia, passato di generazione in generazione, rivelava un passato ricco di vicende intense e tumultuose, accumulate nel corso di molti decenni, come tavolone di lavoro della piccola pellicceria di famiglia, come tavolaccioo da taverna durante la guerra, quando l’intera casa era stata requisita dai soldati occupanti che avevano bruciato nel camino mezza casa, come tavolo di pranzo nella grande cucina a pianterreno, durante i miseri anni del dopoguerra e, infine, come solido scrittoio di suo padre e poi suo. Nella sue vene robuste scorgeva ben chiaro, ad di sotto degli sfregi, dei tagli e delle bruciature una poderosa caparbietà di sopravvivenza, un destino da araba fenice, che pareva quasi trasmettersi a chi lo usava. Pensava che se suo padre non si fosse affrettato a passarglielo, non appena la sua età richiedeva un tavolo di studio, sarebbe stato ancora vivo.
Con il passare degli anni, aveva imparato a leggere anche la venatura delle pipe. Di alcune, improvvidamente ricavate da ciocchi disgraziati, aveva facilmente previsto la sgradevole natura o la precoce vocazione al suicidio: si nascondevano in tasche dismesse fino alla sparizione finale o si buttvano dal terrazzo su uno dei pochi sassi ornamentali del giardino, spezzandosi il collo irrimediabilmente o, addirittura, si catapultavano direttamente dalla tasca in un tombino fognario, azzeccando un’improbabile fessura, apparentemente incapace d’inghiottirle.

Nella meravigliosa vena ascendente di una pipa fiammata, conica, di media capienza aveva, invece, scorto un destino felice, una predisposizione contagiosa alla felicità, forse all’immortalità. Era ben raro che non fosse presente fra le quattro o cinque pipe che solitamente popolavano le sue tasche e non se ne sarebbe separato per nessuna ragione. Quando la sua mano, pescando distrattamente in una delle tasche, la estraeva per caricarla e fumarla, era certo che si sarebbe goduto una bella pipata, senza brutti pensieri.
Da vecchio aveva quasi dovuto smettere, per le pressioni di medici e famigliari sobbillati da paranoiche campagne di dissuasione al fumo, ma ogni tanto una buona fumata nella pipa del destino continuava a concedersela, incurante di rimbrotti e lamentele, finché la rottura di un femore non lo costrinse in ospedale.
Secondo il chirurgo, doveva trattarsi di una degenza breve e senza problemi e tale sarebbe stata se un’inflessibile caposala, animata dalle peggiori intenzioni di far bene, non avesse confiscato la sua pipa dal cassetto del tavolino, dove il nipote premuroso che lo assisteva l’aveva deposta, ben consapevole dell’importanza vitale nascosta nelle sue venature.
Qunando, al risveglio precoce dall’anestesia, nel tentativo di ricostruire la mappa della nuova situazione e trovare un segno della sorte che lo attendeva, volse il suo sguardo dalle pareti bianche ed anonime della stanza al tavolino, per leggerne le venature, dovette constatare che non ne aveva. Non era altro che una triste parodia di tavolo, ricoperto da un laminato mortalmente amorfo. Con impazienza, si girò allora per cercare la sua pipa nel cassetto, staccando tubi e fili che lo impastoiavano, per trovare conforto nella sua venatura rassicurante. Quando lo vide asetticamente vuoto, non ebbe bisogno di altri segni; si adagiò sulla schiena e chiuse gli occhi malinconicamente, consapevole che di lui neppure una ceppaia sarebbe rimasta, per raccontare la sua storia ad un bambino curioso.

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