Pollicino

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Cancellare ogni traccia del proprio passaggio terreno era diventata la sua ossessione. Sopravvissuto ad un’infanzia di stenti, la fortuna, il coraggio e l’intraprendenza gli avevano assicurato una posizione invidiabile, non solo per l’agio economico ed il prestigio sociale di cui godeva, ma anche per l’aura eroica di cui era circondato. Ormai lontano dai riflettori della notorità quotidiana, era riuscito con tenacia e senza colpi di scena a circondarsi di una confortevole sfera d’ombra, ma non gli bastava. Avrebbe voluto sparire, cancellare, da vivo, ogni traccia del proprio passato nella memoria dei suoi contemporanei.

Da eroe popolare, amatissimo da un paio di generazioni, avrebbe, invece, voluto godere della stessa damnatio memoriae riservata ai grandi, caduti in disgarazia in età bizantina. Quando l’opera sembrava ormai riuscita, improvvisamente accadeva un evento, a lui del tutto estraneo, che lo riportava in piena luce sulla stampa per una sua impresa, ormai lontana nel tempo, di cui si rimpiangeva, con nostalgia, l’irripetibilità.

In un’età in cui i più annaspavano pateticamente per apparire ad ogni costo in televisione, seppure in modo effimero, ridicolo, degradante, a lui non riusciva di sparire. Reporter intraprendenti, lo avevano scovato, filmato e ripresentato ad un telegiornale mentre leggeva un libro sotto il portico della sua casa in mezzo alla pampa argentina, a mille miglia dalla città più vicina. Perduta ogni speranza di svanire a Macondo, aveva tentato di mimetizzarsi nella grande promiscuità del Greenwich village, ma ben presto un reportages aveva documentato il suo nuovo rifugio, svelandone ogni particolare ed esaltando le sue anonime abitudini quotidiane.

Tornato in patria, nella valle boscosa della sua infanzia, lo avevano nominato senatore a vita e perseguitato con una decina di lauree honoris causa che lo avevano costretto ad apparire in cerimonie stucchevoli, in cui il suo passato gli veniva ripresentato dal rettore di turno come un fantasma immortale di cui gli era impossibile liberarsi.

Ormai privo di speranza, durante una notte insonne, gli capitò di rivedere Kaghemusha (Il sosia) e gli sovvenne di un suo doppio, emigrato in Argentina, che aveva conosciuto per caso e assunto nella sua finca. Era un brav’uomo, uno dei tanti sfortunati, originari della sua valle, che, da ragazzi, avevano cercato fortuna all’estero senza trovarla, prima che lui gli affidasse il governo della fattoria, alla sua partenza per New York.
Lo fece venire segretamente, lo vestì e istruì molto sommariamente e lo mandò a ricevere una laurea nella capitale.
I giornali, dando il giusto rilievo al’evento, riferirono che la recente malattia aveva segnato fisicamente il senatore, ma senza appannarne quello spirito che lo aveva reso un mito vivente: un unicum irripetibile a cui l’intero paese guardava come fulgido esempio di virtù civiche, modestia esemplare e cultura insondabile.

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