Pipe giganti

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Oggi, finalmente, dopo un mesto periodo di tovaglie a quadretti, nella trattoria che frequentiamo a pranzo a metà settimana sono tornate le tovaglie chiare.
Da quando le vecchie tovaglie bianche plasticate erano state sostituite, non mi ero più azzardato a disegnarci sopra le solite pipe con le quali riempio, da tutta una vita, gli spazi bianchi dei fogli A4 che infestano le attività in cui mi sono trovato coinvolto.
Oggi, ottenuto il permesso pieno e cordiale dal padrone e quello più difficile della moglie che teme un danno dell’inchiostro alle sottotovaglie, ho potuto finalmente liberare la mia vis pictorica lungamente repressa, disegnando tre grandi pipe nel centro del tavolo.
Non so fare altro, ma quelle sono perfette.
Una pipa curva disegnata con un sol tratto è la mia sfragis: il sigillo che uso in coda ai messaggi di posta elettronica e ovunque possa liberarmi dall’obbligo burocratico di una firma ufficiale anagrafica.
Raramente, però, capita l’occasione di potermi scatenare nelle dimensioni e la presenza di un tavolo ancora sparecchiato è più unica che rara.
I muri delle case altrui io li rispetto e non mi sognerei mai di andare in giro a sbombolettare pipe sulle case della città, come fanno i writer più sgangherati.
Nel constatare che non ho perso la mano, a dispetto della lunga astinenza, mi è tornato in mente l’aneddoto del calligrafo coreano, raccontato in un libro di quel paese, di cui non ricordo quasi niente altro.
Nel mio ricordo, un giovane viene ammesso alla bottega di un celebre maestro pittore e calligrafo che, impietosamente, gli impone periodicamente un esame: deve riprodurre alla perfezione un carattere pittografico, soltanto allora sarà libero di lasciare la bottega-scuola. L’allievo s’impegna con tutte le sue notevoli capacità nell’impresa di accontentare il maestro, diventa, a sua volta un celebre pittore, ma, anno dopo anno, al ripetersi dell’esame, non riesce mai ad ottenere l’approvazione del suo padrone e continua a rimanere a bottega per trent’anni, finché il decrepito maestro, finalmente, riconosce che il carattere, dipinto in un lampo, è perfetto. Libero dall’incubo, il non più giovane allievo, si libera del maestro nel modo più definitivo: lo ammazza.
Italo Calvino, nelle “Lezioni americane” cita un aneddoto cinese abbastanza simile. In conclusione di quella sulla rapidità scrive: “Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio,  il più perfetto granchio che si fosse mai visto.”
Le mie pipe sulla tovaglia non saranno pari al granchio di Chuang-Tzu, anche se ho impiegato ben più di dieci anni a perfezionarle, ma chissà cosa sarei stato capace di fare, se avessi avuto un re come committente.

Ho scattato la foto del dignitario coreano durante la mostra “Ancient portraits from Korea”
tenutasi a Bologna nelle sale del museo medioevale nell’Aprile 2009.

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