La bacchetta del teatro conta fino a ventiquattro

mer. 01 ottobre 2003

“La bacchetta del teatro conta fino a 24..”
Anche le filastrocche e le conte cambiano di città in città, com’è giusto e ragionevole, del resto. Forse la televisione riuscirà ad imporre una certa globalizzazione anche in questo settore, ma in passato la differenza fra un bambino modenese o bolognese ed uno romano erano notevoli, anche in questo importante dominio culturale.

Quando ci trasferimmo da Bologna a Roma io avevo nove anni, frequentavo la quarta e giocavo più che potevo. Siccome la scuola statale era un po’ distante ed il percorso casa-scuola obbligava all’attraversamento di alcune grandi strade di traffico, i miei m’iscrissero ad una scuola di suore tedesche che vantava un magnifico giardino a cinquanta metri da casa.

Questo fu il solo motivo per me di quella scelta, ma, frequentandola, mi resi conto che invece i miei nuovi compagni stavano percorrendo i primi gradini preparatori ad un cursus honorum che sarebbe continuato in cattolicissime scuole superiori e, presumo, nell’Università cattolica, anticamera confortevole per una carriera politica nel partito di governo o nei meandri imperscrutabili delle capaci strutture amministrative che prosperavano all’ombra del cupolone.

L’anno successivo, diventato più esperto del traffico, fui iscritto in quinta nella scuola pubblica: un orrendo edificio in puro stile fascista intitolato ai “Fratelli Bandiera”, sfortunati patrioti fucilati nel vallone di Rovito che, più tardi, offrirono, loro malgrado, lo spunto alle clamorose “Sorelle Bandiera” con il loro irriverente “Fatti più in là” de “L’altra domenica”: la trasmissione televisiva domenicale di Renzo Arbore negli anni ’70.

Che carriera abbiano fatto i miei compagni educati dalle suore tedesche non ho mai saputo perché rapidamente persi memoria dei loro cognomi oltre che delle loro facce; ricordo soltanto che per giocare con loro nel bel giardino romano mi toccò imparare a memoria nuove conte e aggiornare il mio dizionario dei giochi con nomi per me esotici, quali puzzico rampichino, che nel corso della vita successiva non ho poi avuto occasione di sfruttare a fondo, perfino meno del greco antico, oggetto di studio spassoso per ben cinque anni.
All’urdu non mi sono ancora avvicinato con adeguato entusiasmo.

Ripose il papagallino nella tasca interna, ordinatamente

  • E’ un carpediem della miglior specie, ti dico.
  • Ma a sua insaputa o sua sponte? E’ diverso, mi concederai.
  • Lo è anche nel sonno profondo, lascio a te decidere.
  • Allora non ci sono dubbi, ma parce victis.
  • Certo, certo il caso è chiuso, per quanto mi riguarda. Te ne ho parlato perché la faccenda ha sorpreso anche me, in primis.
  • Non dubito, in questo caso l’abito non fa il monaco: sempre così lavato&stirato… chi poteva immaginarlo?
  • Eppure, a ben vedere, qualche indizio ce lo aveva fornito?
  • Veramente? In che occasione?
  • Quando lo accompagnammo alla tomba della madre. Lui commosso spolverò la scritta profondamente incisa sulla lapide: “Padre e moglie esemplare si spense nel più bello”. Lo ricordi?
  • Certo un motto indimenticabile, così enigmatico e struggente. Era vedova di un marito virtuale, vero, e quindi aveva provveduto da sola ad allevare ciascuno dei suoi figli unici?
  • Ovviamente, ma non è questo il punto. Ricordi di cosa si servì per spolverare delicatamente ciascuna lettera con delicatezza filiale?
  • Certo: un pappagallino verde, ancora molto acerbo, se mi consenti la battuta frusta.
  • E ti sembra poco? Voglio dire che se non ci fossimo lasciati coinvolgere dall’onda di commozione avremmo potuto raddrizzare le orecchie fin da allora.
  • Perché? Ricordo che si comportò in modo esemplare, sinceramente commosso, ma compos sui e il pappagallino lo ripose ordinatamente nella tasca interna della giacca, senza lasciare traccia della sua visita se non nel pio gesto di restaurare la leggibilità della lapide.
  • Forse hai ragione tu, meglio sospendere il giudizio, non vorrei lasciarmi trascinare da ingiustificati pregiudizi, anche se connotandolo come un carpediem non volevo minimamente sminuire la sua indiscussa statura di studioso di sociologia degli imenotteri. Vera, vita, varia.
  • Le conoscevi anche tu?
  • Chi?
  • Le tre sorelle Gardesan, in ordine d’età sarebbero Varia, Vera, Vita, ma non vorrei essere pignolo.
  • Impossibile, tu sei un battopari ambidestro senza ripensamenti, per fortuna.

Il sospiro del moro

lun. 06 ottobre 2003

  • Preferiresti essere considerato la manna dal cielo o la coda del diavolo?
  • Perché, posso scegliere?
  • Naturalmente, siamo nel dominio del possibile.
  • E avrei anche altre opzioni, o solo quelle due?
  • Fin che ne vuoi, approssimativamente.
  • Mi piacerebbe molto “il sospiro del moro”, allora.
  • Cosa sarebbe? Una praline di cioccolata con un alito di dolce malinconia?
  • Potrebbe essere, anche se, con quel nome, io conosco solo un passo montano andaluso dal quale si scorge Granada. Una veduta indimenticabile, di notte, quando tutto il rumore paesaggistico intorno tace e rimangono vive solo le luci della città lontana.
  • Bellissimo. Tu allora vorresti essere una galassia di luci terrene nella notte?
  • Mi piacerebbe, soprattutto d’estate, quando il caldo fa tremolare le luci.
  • E sia, allora, e che d’ora innanzi tutti gli animi gentili e sensibili si abbandonino con dolcezza alla contemplazione delle tue mille luci tremule nella notte, mio struggente sospiro del moro.

Canapa, pace, pece e pazienza

mer. 08 ottobre 2003

Io calafato, tu calafata, egli non ce la fa a calafatare ed è meglio che cambi mestiere.
Calafatare richiede canapa, pace, pece e pazienza.
Nel ramo calafatatura senza canapa non si campa.
Se la calafatatura è a regola d’arte la nave solca le onde, altrimenti ara il fondo.
Quando una nave mal calafatata tocca il fondo, vi si adagia con grazia e ci resta senza annaspare nell’inutile tentativo di risalire e in ciò si differenzia dall’homo sapiens sapiens che ottiene lo stesso risultato, ma agitandosi scompostamente.
Calafatare consiste nell’infilare con sapienti colpetti la canapa in una fessura molto stretta fra due doghe di legno, pertanto senza fessura non c’è calafatatura, ma non viceversa.
Se una galera di legno galleggia perché ben calafatata tutti i galeotti se ne rallegrano benché incatenati, in caso contrario perdono la loro allegria e sviluppano tendenze all’annegamento collettivo.
La calafatatura non attecchisce sulle barche di plastica perché prive delle indispensabili fessurazioni che apparivano spontaneamente nel fasciame delle ben costruite navi di legno, fin dai tempi di Omero.
Molti se ne rallegrano, ma non i calfatatori che vedono scemare la loro arte e sentono di essere ormai in via di estinzione; per questo usano la canapa in modi nuovi, stigmatizzati dai benpensanti.

La figura rappresenta una galera veneziana del XIV secolo


Ignobel per la pace

gio. 09 ottobre 2003

Fra i vari premi annuali Ig-Nobel 2003 assegnati lo scorso 4 ottobre mi sembra tristemente spassoso il premio per la pace vinto da Lal Bihari: un signore indiano dello stato di Uttar Pradesh, tristemente famoso per la grande povertà e la fiorente delinquenza a buon mercato, che ha impiegato diciotto anni di vita intensa, attiva e trasgressiva per farsi riconoscere dai solerti burocrati della sua città come vivo anziché deceduto.
Il suo non è neppure un caso isolato, al punto che ha potuto fondare, da morto, un’associazione dei morti cioè di suoi compatrioti vivi e vegeti che, come lui, risultano morti nei registri anagrafici dei loro paesi.
Andando all’osso, tutta la faccenda si riduce ad ordinari casi di corruzione a buon mercato di impiegati anagrafici che accettano di registrare come morto il possessore di un piccolo, ma ambitissimo poderetto. I parenti famelici vanno all’ufficio anagrafico, sganciano una modesta mazzetta (da 1 a 50 Euro) all’impiegato che ammazza all’istante sui suoi registri il disgraziato possessore di un fazzoletto di terra. Nessuno si sporca le mani di sangue, ma la morte burocratica è tale a tutti gli effetti, basti pensare che il signor Lal Bihari ha impiegato 18 anni, durante i quali ne ha fatte di tutti colori, per farsi resuscitare e tornare in possesso dei suoi miseri beni.I premi IGnobel vengono assegnati da 13 anni a ricerche inutili che “prima fanno sorridere, poi pensare”. Chi volesse vederne l’elenco, con le motivazioni (in inglese) e tutto il resto vada su: http://www.improbable.com/ig/ig-pastwinners.html
Fra gli altri, interessante l’ignobel per la chimica attribuito quest’anno ad un giapponese che ha indagato sulle ragioni per cui una statua di bronzo della sua città appariva meno bersagliata dai piccioni di altre della stessa nobile lega.

Base per altezza sarebbe una formula applicabile alla vita di tutti i giorni?

ven. 10 ottobre 2003

  • Base per altezza sarebbe una formula applicabile alla vita di tutti i giorni, secondo te?
  • Preferirei anche che tu completassi la formula con un equo “diviso due”, se non ti dispiace.
  • Certo, molto volentieri, il discorso diventa più acuto, più penetrante. Mi era sfuggito, scusa.
  • Per risponderti seriamente, però dovrei pensarci. La quotidianità è dura da geometrizzare, ti pare?
  • Infatti, mentre un singolo gesto eroico, se isolato, potrebbe sopportare anche un P greco R3, un sereno tran tran rappresenta sempre una meta ardua da raggiungere e, soprattutto, da mantenere.
  • Del resto l’eroismo come rifugio e fuga è un topos.
  • Non sapevo e da quanto tempo lo è diventatos?
  • Dopo la battaglia di Maratona, credo. Battuti i persiani, per i reduci era duro riprendere la solita vita fra casa, piazza e caffè, racconta Erodono.
  • Erodoto, forse.
  • Giusto, è stata una stupida correzione del check speller che, poverino, è ignorante come una capra. Bisogna pensare che allora non c’era neppure la televisione, non che sia una presenza senza ombre.
  • Tematica o generalista? Come la definiresti la televisione inesistente di quell’epoca?
  • Non saprei, per i greci di allora forse sarebbe bastata l’assenza di un solo canale generalista, anche se mi rendo conto che è un discorso pericoloso quello in cui mi sto infilando, che potrebbe scivolare verso subdole forme di razzismo retrospettivo.
  • Non scivolare e sfilati subito, allora. Tenere in casa una tigre da duecento chili, come fosse un gatto, solo perché è un felino mi sembra ancora più pericoloso, però.
  • Hai una tigre in casa?
  • No, neanche un gatto.
  • Neanche io, del resto sarebbe un ben misero risultato dividere a metà la base per l’altezza di un gatto, anche senza tener conto delle difficoltà di una misurazione dal vivo, non troppo invasiva .
  • E’ quello che penso anche io, la geometrizzazione del quotidiano non appaga. Non so bene il perché, però.


L’edificio così acutamente triangolare della figura si trova a Berlino

E se fossi un’ombra?

sab. 11 ottobre 2003

  • E se fossi un’ombra?
  • Chi? tu o io?
  • Chi vuoi tu, anche entrambi, se vuoi.
  • Meglio in due; altrimenti ho paura che mi sentirei solo.
  • Cosa potremmo fare da ombre?
  • Io vorrei sdraiarmi su di un prato e guardare i cani che se la spassano scorazzandomi intorno liberamente, come se non esistessi.
  • Bello, verrei anch’io. Poi potremmo lasciarci trasportare dal vento nel bosco…
  • … e infilarci in un albero cavo e sentirlo scricchiolare da dentro…
  • … e lasciarci cadere da un ramo come foglie d’autunno.
  • Stiamo diventando lirici; dev’essere la mancanza di peso.
  • Troppo? Pensi che dovremmo conservarci più pesanti, ombre zavorrate, insomma?
  • No, non più di una foglia secca. Lasciamoci arruffare da questa brezza insieme alle altre foglie.
  • Ho sempre desiderato muovermi così silenziosamente, senza sforzo e senza calpestare nulla. Ma dimmi, tu senti freddo, ora?
  • No, e neppure caldo, né fame, né sete, né stanchezza.
  • Come sei diventato lungo, però.
  • Anche tu. A domani, allora, quando l’aurora dalle rosee dita ci risveglierà a nuova vita.

A sinistra il celebre bronzetto etrusco “L’ombra della sera” – Volterra

Gelsomino d’autunno

lun. 13 ottobre 2003

In questi giorni, aprendo le doppie finestre, entra dal terrazzo il profumo intenso di un gelsomino a spalliera coperto di vigorosi grappoli di fiori bianchi. Nessuno di noi, in famiglia, sa interpretare questo gesto trasgressivo di una pianta che, in passato, si era adagiata sui ritmi conformistici di una lunga fioritura durante la tarda primavera e l’estate.
Fin da da quando ero bambino, il profumo del gelsomino bianco, come quelli simili del caprifoglio e delle tuberose, significava per me: estate, vacanze, giochi all’aperto e grilli notturni sotto le finestre aperte.
Ora che i tigli stanno ricoprendo di foglie gialle il vialetto e le finestre rimangono normalmente chiuse, il profumo del gelsomino sul terrazzo è un piccolo tuffo al cuore gradito, ma inatteso; l’annuncio ingannevole di un’ estate che invece è finita e tornerà solo dopo un lungo inverno freddo e senza altri profumi, se non quello prezioso del calicantus.

Foglie dei tigli di casa sotto la pioggia battente

Dopo una sobria grigliata di carne (una in due) in un’osteria scelta caso

ven. 17 ottobre 2003

Mentre scrivo su di una piccola finestra di Note Tab, continuo a vedere sul brillante schermo LCD la foto di un borghetto vicno al monte delle formiche sull’Appenino bolognese. L’ho scelta come sfondo già da un paio di mesi e penso resistrà ancora.

Si tratta di quattro case e di una torre sulla cima di una collinetta inserita in un paesaggio inequivocabilmente invernale di prati e di alberi spogli. L’ho scattata il 16 marzo scorso, al limitare della primavera astronomica, ma la vegetazione, ignara di calendari gregoriani, manteneva ancora prudenzialmente l’abito invernale, come del resto noi cristiani in gita fuoriporta per una sgranchitina su strade di crinale e sentieri poco battuti, dopo una sobria grigliata di carne (una in due) in un’osteria scelta caso. Quando si avvicina l’una ci si ferma al primo posto che ispiri e sia aperto. Di sabato a pranzo si mangia tranquilli con poca gente e senza rumore o affanno.

La foto scattata da una collina vicina, sovrastante di poco il borghetto, trae la sua piacevolezza dalla difformità armoniosa delle povere case dall’intonaco sbiadito, dalla loro posizione dettata dalla pendenza del declivio e dal commovente scatto d’orgoglio di una torre, del tutto incongrua rispetto alla disarmante umiltà dell’insieme.
Un sabato o l’altro ci tornerò in una stagione diversa, magari con la magia della neve.

O con le penne o con le pinne

sab. 25 ottobre 2003

In questi giorni grigi e freddi, quando noi orsi motociclisti, inzuppati dalle piogge battenti agogneremmo essere in una grotta a russare come i confratelli dei boschi, in attesa del ritorno della primavera, andavo ripensando all’altra strategia di sopravvivenza alla brutta stagione, molto in voga soprattutto fra i pesci e i pennuti: la migrazione verso luoghi caldi.
O di pinne o di penne molti di loro affrontano viaggi epici di migliaia di chilometri per allontanarsi dai luoghi freddi e procurarsi un confortevole tepore invernale. Anche i nomadi dediti alla pastorizia, sebbene fossero banali bipedi terrestri e inplumi, assecondavano la virtuosa abitudine di greggi e armenti, trasferendosi dai freschi alpeggi alle tiepide pianure. Noi no, siamo dei duri, restiamo inchiodati alle nostre città, anche quando fa troppo caldo o troppo freddo, con l’eccezione di brevi ed insoddisfacenti parodie migratorie: gli esodi estivi o natalizi, niente altro che insensate fughe collettive da città sempre più inospitali, verso luoghi invivibili come le stazioni balneari o invernali nei periodi di punta.
Pare, però, che i parigini che possono farlo, lasceranno la loro città la prossima settimana, in corrispondenza di una vacanza scolastica, così ho deciso di approfittarne, nella speranza di trovare la città meno affollata del solito. Domani, domenica, partirò, viaggiando controcorrente, anche senza penne o pinne adeguate, per sniffare una boccata di smog alternativo a quello quotidiano di casa, un’improvvisa overdose di ossigeno potrebbe ammazzarmi.


Nella foto il celebre Caproni CA100 della Regia Aeronautica, prodotto in serie dal 1925 al ’29
Nel fregio in alto, le oche canadesi, campionesse di migrazioni stagionali.

“Due no, ma uno solo si può”

lun. 03 novembre 2003

“Due no, ma uno solo si può”, questa la frasetta completa che costituiva la formula sintetica ed esauriente del “fantasma fondamentale” psicoanalitico di un suo caro amico, al termine di una lunga analisi conclusasi con successo. Niente di più di così, ma il percorso per vederla affiorare dentro di sé era stato lungo e molto faticoso, a suo dire. Lei aveva cominciato il suo percorso alla caccia del suo fantasma alla fine del liceo. Dopo un paio d’anni di assidua frequentazione di un primo approssimativo analista, un rassicurante superficiale arraffone, con il quale aveva rotto il ghiaccio e sperimentato il primo, sconvolgente transfert, era partita alla ricerca di chi potesse aiutarla veramente, con autentica competenza e l’aveva trovata in una una lacaniana di spicco, tanto esperta quanto priva di fronzoli e indulgenza. Tuttavia, benché indirizzata sapientemente dai piccoli, abili colpi di timone della sua guida, erano occorsi un’altra decina d’anni di proficuo e intenso lavoro per arrivare alla scoperta conclusiva. Nel frattempo era cresciuta, aveva cambiato città, paese e lingua, aveva formato un sua famiglia e trovato un buon lavoro, coerente con i suoi studi, in attesa di raggiungere il suo scopo: conquistare finalmente la liberta di osservare con distacco professionale la realtà, per intraprendere a sua volta la sottile arte di chi ascolta le anime in pena e cerca di scoprire nel groviglio dei loro racconti la trama nascosta che li sottende, invisibile a tutti gli altri, ma non a lei. Il percorso era stato molto lungo e molto faticoso, come in tutte le favole, ma alla fine aveva trovato l’epitome gloriosa del suo fantasma: “Maionese, a parte”.

Katzenbergen

Piantare baracca e burattini e partire era diventata un’abitudine alla quale non sapeva rinunciare. Sosteneva che un tipo sveglio, e lui si riteneva tale, poteva andare a vivere in India e camparvi confortevolmente, se aveva cinquecento dollari in tasca e sapeva come tenerli in movimento e farli fruttare.
Avevo avuto notizie di questa sua teoria e della sua imminente partenza da un amico comune che lo descriveva come un tipo originale dal cognome esotico: Katzenbergen. A circa venticinque anni, non si era fatto intralciare dalla pretesa di concludere studi superiori, aveva condotto una vita abbastanza raminga, se non proprio avventurosa, arrangiandosi come poteva, durante i suoi soggiorni all’estero. Credo che la faccenda si concretasse principalmente in saltuari impieghi come sguattero e cameriere.
Alle uscite seguivano immancabilmente i ritorni per leccarsi le ferite, dormire e mangiare meglio. Quando lo conobbi si era appena licenziato da un discreto impiego in una ditta per il trattamento delle acque che lo pagava piuttosto bene, dopo avere investito su di lui parecchio, sotto forma di lunghi corsi di addestramento residenziali sul lago Maggiore.
Aveva deciso che era ora di partire all’insegna del “vendo tutto e mi ritiro”. Doveva raggranellare i fatidici cinquecento dollari con i quali sarebbe vissuto da pascià, comprando, per poche rupie, un pesce madornale, ancora guizzante, direttamente dalle mani del pescatore, per cucinarlo alla brace sulla soglia di una fresca capanna, al cospetto dell’oceano indiano, mentre un sole dell’altro mondo arrossava le nubi all’orizzonte.
Per assecondarlo, comprai da lui un grosso cavalletto fotografico di alluminio che ancora oggi ruba spazio in qualche armadio di casa, senza essersi mai reso utile in vita sua, poi lo persi di vista completamente: sparito nel nulla remoto di una paese estraneo a me come nessun altro, finché, dopo mesi, non ebbi notizia che si era fatto vivo. Aveva scritto una cartolina al suo amico chiedendogli di mandargli qualche dollaro per aiutarlo ad uscire dallo stato di completa indigenza in cui versava, ospitato dai monaci che fornivano a lui, come ad altre centinaia di disgraziati, la famosa tazza di riso al giorno.
E i cinquecento dollari di eterna sopravvivenza? Dalla cartolina illustrata di un bel tramonto sull’oceano indiano non emergeva che fine avessero fatto.