Non sarà il Mosè di Michelangelo, ma …

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mer. 05 novembre 2003

Sul grande portone ad arco spiccava una maestosa testa di cavallo in bassorilievo all’interno di un tondo di terracotta del bel colore mattone dell’argilla nostrana ad indicare la presenza di una stalla per il cambio dei cavalli.
Quando ero bambino, tuttavia, la funzione dei grandi spazi che avevano un tempo ospitato i robusti cavalli da tiro erano utilizzati per fabbricare i grossi cestoni destinati ad accogliere i grappoli d’uva durante la vendemmia e altre derrate meno importanti in altre stagioni.
Seduti a loro volta su cestoni, i cestai sedevano in fila lungo il muro circondati dal materiale – rami flessibili di salice e sfogliature di pioppo – che serviva per la costruzione dei loro manufatti, molto apprezzati dai contadini per la leggerezza congiunta alla robustezza.

L’antico mestiere del cestaio non ha mai arricchito nessuno, ma l’atmosfera che si respirava nel lungo salone era distesa e anche allegra. Intrecciare meccanicamente rami e sfoglie di pioppo non impegna certo le facoltà superiori del cervello, né affatica come spaccare pietre con la mazza, così accadeva che chiacchiere e scherzi rimbalzassero di bocca in bocca liberamente, pur senza degradarsi al livello di pettegolezzi oziosi di sfaccendati. Inoltre, un cesto ben fatto e apprezzato da chi lo comprerà non sarà il Mosè di Michelangelo, ma è pur sempre una bella soddisfazione per chi l’ha costruito. interamente con le proprie mani, certo maggiore dell’attività di un operaio in fabbrica.

Forse per questa famigliarità con l’ambiente di lavoro che affonda le radici nella mia infanzia o per il rispetto dovuto ad un manufatto umano atavico, sopravvissuto per millenni pressoché immutato nell’aspetto e nelle funzioni, mi soffermo sempre con attenzione ad ammirare l’intreccio di ceste e cestini e a soppesarli con le mani, ammirato dalla perfezione e incantato dalla leggerezza.

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