Crepuscolo zero

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Non si era trattato di cannibalismo, in ogni caso. 
Neppure quando il sole sparì con un balzo, inghiottito dalla notte ci fu spazio e tempo per pentirsi. 
Era stato come un tramonto senza la dolcezza del crepuscolo. Rapidamente la luce venne meno come durante un’eclisse e la stessa atavica sensazione di un freddo innaturale s’insinuò lungo la schiena. 
Nessuno si sarebbe aspettato che l’ostilità della Compagnia si manifestasse in quel modo. 
I megaschermi dei giornali murali non avevano preannunciato con la solita fanfara l’evento, e una rapida consultazione dei lunari sui videotelefoni aveva confermato anche ai più ottimisti che nessuna eclisse era prevista per quel giorno su Marte. 
I sensori crepuscolari si attivarono frettolosamente. Le campane di vetro assunsero rapidamente l’abituale pallore fluorescente dell’illuminazione serale e l’erogazione di ossigeno si ridusse ai livelli medio bassi serali, appena sufficienti per respirare confortevolmente sdraiati sui triclini multimediali, immersi nel tripudio olografico degli spettacoli della sera, prima della drastica riduzione notturna. 
Il regime sera stanò dai ripostigli i robot pulitori che con la loro ammaccata e rugginosa solerzia cominciarono ad aspirare, fagocitare e triturare quanto era rimasto in giro per effetto dell’oscurità inattesa. La loro presenza routinaria fu interpretata come un buon segno da molti, anche se non testimoniava altro che la schematica stupidità di quei piccoli, servizievoli sintetici da quattro soldi.
Gli ascensori furono presi d’assalto, senza rispetto per gli abituali turni di uscita. Il sovraccarico cominciò a provocare i primi guasti. 
I più fortunati rimasero fermi ai piani con le porte che si aprivano e chiudevano senza senso come sbadigli. I più ligi decisero di attenersi alle procedure d’emergenza incendi, reiterate con illeggibile frequenza da vecchi cartelli sbiaditi e si avventurarono per le scale d’emergenza per scoprire che ospitavano inattaccabili colonie d’insetti mutanti assuefatti a quell’habitat, indisturbato quanto le antiche foreste pluviali, ma più buio e altrettanto ostile all’uomo. 
Neanche i robot smaltitori e liquidatori venivano più spediti da tempo in quella giungla verticale che si favoleggiava ospitasse nei sotterranei più profondi grossi carnivori ciechi e albini dai denti a sciabola che si nutrivano a spese dell’inesauribile colonia di ratti.  
L’uso dei lanciafiamme e degli estintori apriva un varco breve, ma sufficiente per dimostrare l’inutilità di procedere a quel modo. Inutili anche i tentativi individuali di sfuggire alla sorte comune. 
I megaschermi da cui proveniva l’informazione ufficiale, l’unica diffusa se non credibile, tacevano come se nulla fosse accaduto, accreditando due ipotesi altrettanto allarmanti: l’evento era noto e voluto per qualche ragione oscura, ma funzionale al potere oppure era ignoto e indesiderato, ma completamente fuori controllo. 
Quale delle due ipotesi fosse preferibile era questione d’inclinazione personale, ma neppure i bookmaker più scatenati avevano fatto in tempo ad organizzare le scommesse sull’argomento. 
Chi si sentiva sotto il culo della rana già da prima, aveva buoni motivi per ritenere la sua posizione rafforzata e la catastrofe finale imminente, mentre gli ottimisti inossidabili non si facevano smontare da una banalità come la sparizione del crepuscolo: c’era da scommetterci che anche in un mondo a crepuscolo zero ci sarebbe stato spazio per spassarsela come e più di prima. 
Non solo i dietrologi, impavidi alimentatori d’inconfessate ulcere duodenali, ma anche una fascia crescente di yesmen senza macchia e tanta paura sospettavano da tempo che la smentita carenza strutturale del sistema di generazione dell’ossigeno che regolava la vita sotto le campane di vetro avesse determinato la progressiva alterazione della durata del giorno. 
Niente di vistoso, fino ad allora. Una lima sorda che sgretolava pochi secondi al giorno, quantità impercettibili che sarebbero sfuggite anche ai detentori abusivi di orologi personali, qualora ve ne fossero rimasti di vivi e avessero osato eccepire sull’esattezza dell’ora ufficiale. 
Anche sui tagli alle erogazioni di ossigeno nelle ore notturne serpeggiava un mugugno crescente e sempre più scoperto. 
L’evacuazione forzata e improvvisa di alcuni quartieri residenziali periferici a bassa compressione abitativa per presunte perdite delle campane atmosferiche aveva destato molti sospetti e non soltanto fra gli abitanti, costretti ad affollare ulteriormente altri quartieri già saturi da tempo. Incontrollata, ma sempre più insistente, era la voce che dava per certa una mortalità crescente fra i pazienti degli ospedali. 
Le campagne periodiche per una natalità programmata e consapevole contrastavano in modo stridente con la somministrazione di spermicidi nell’acqua per trecento giorni all’anno, secondo un calendario ufficiale, ma incontrollabile, che veniva pubblicato l’anno successivo insieme con le statistiche sui nati e sui morti. 
La Compagnia divulgava una rassicurante crescita, modesta ma costante, della popolazione, mentre era sotto gli occhi di tutti che Marte si stava spopolando, ma non era questo il peggio. 
Chi poteva dire di aver visto con i propri occhi un bambino in carne ed ossa? Un solo vero bambino nato da veri cloni umani? L’esperienza comune si limitava alle trasmissioni propagandistiche ritualmente diffuse dai megaschermi o alla conoscenza diretta e personale di giovani cloni organici d’importazione. 
A peggiorare la situazione degli ultimi anni, le aree ossigenate erano sensibilmente diminuite a vantaggio del deserto e quella che stava avvizzendo sotto campane atmosferiche ancora più vecchie, più fatiscenti e sempre più affollate era una popolazione ormai vecchia, inutile negarlo. 
Gl’investimenti per un’espansione della colonia erano cessati da un pezzo e anche quelli per la normale manutenzione languivano. 
Che i pionieri -i lussuosi cloni umani rettificati impiantati su Marte- fossero largamente superati dal punto di vista economico era di pubblico dominio in tutta la galassia: consumavano troppo ossigeno e richiedevano una temperatura di funzionamento troppo alta, anche nelle lunghe fasi di stand-by di cui avevano bisogno tra un ciclo lavorativo e l’altro. Trentasette gradi anche durante le lunghe ore di sonno: un’autentica follia.  
Il tentativo della Compagnia di sostituirli gradualmente con cloni organici ad alto rendimento di altri pianeti era stato un buco nell’acqua. “L’integrazione procedeva con comprensibile lentezza”, secondo la terminologia ufficiale. Ammettere gl’insuccessi non era il forte della Compagnia, soprattutto dopo il recente cambio di guardia. 
Poco dopo il loro arrivo, i venusiani sparivano. Questa era la verità. Si volatilizzavano. 
Qualche rara volta erano stati trovati resti maciullati e quasi irriconoscibili di alcuni di loro. Anche se i periodici rapporti ufficiali non si sbilanciavano oltre le “… persistenti difficoltà di acclimatazione dei nuovi concittadini, dopo le calorose accoglienze delle vecchie comunità”, i dirigenti del “Servizio immigrazione” avevano ben più che dei sospetti sulla sparizione dei loro pupilli: i megantropoi se li pappavano come ranocchi. 
Va ricordato, a chi non lo sapesse, che quei vecchi costosi terrestri erano dei bestioni da un quintale e mezzo, muscolosi e molto determinati. Un incubo per i nuovi arrivati: dei venusiani da cinquanta centimetri a struttura cartilaginea, capaci di nutrirsi di qualsiasi rifiuto organico, di muoversi senza sosta anche in assenza di ossigeno: degli autentici miracoli hi-tech, ma non certo dei leoni. 
Con le loro tre coppie di arti laboriosissimi e una mobilità frenetica, non c’era da meravigliarsi troppo se scatenavano in qualcuno l’istinto di calpestarli come scarafaggi ipertrofici. 
La Compagnia, anzi, aveva dato per scontato un ragionevole tasso di “mortalità da primo impatto”, mentre invece non aveva preso in considerazione l’ipotesi che se li mangiassero, dopo averli spappolati al suolo con una sola pedata ben assestata, presumibilmente. 
Nessuno dei nuovi dirigenti, neppure i più supponenti e tenaci assertori dell’integrazione graduale aveva immaginato gli orgogliosi megantropoi così allegramente cannibali, anche perché fra di loro non praticavano alcuna forma di antropofagia, o altri sport cruenti caratteristici della loro specie nell’ambiente naturale, cioè sulla Terra. 
I sociologi dell’emigrazione, chiamati a giustificarsi per non avere previsto il fenomeno, stranamente non cavarono un ragno da un buco. Sostennero che, probabilmente, era il tremulo pallore della loro carne semitrasparente, l’assenza di una struttura ossea, la mancanza di voce che li faceva rassomigliare più ad ostriche e a granchi che a nuovi vicini di casa. 
Ma tutti la considerarono una foglia di fico, quella sì trasparente, per nascondere la nudità della loro insipienza. 
I dirigenti della Compagnia riconobbero che, in ogni caso, erano un pasto molto migliore delle deprimenti razioni bilanciate, distribuite per loro ordine negli spacci alimentari ufficiali. 
Quale che fosse la ragione del comportamento curioso dei padri fondatori, la Compagnia aveva deciso che non valeva la pena d’importare giovani venusiani per integrare con proteine pregiate la dieta fin troppo dispendiosa dei vecchi terrestri. Nulla era trapelato, tuttavia, su quale strategia alternativa la nuova dirigenza intendesse attuare, per sostituirli. 
L’estinzione della colonia per morte naturale dei suoi membri non era certo ipotizzabile a breve. Sfortunatamente si trattava di esemplari rettificati per durare a lungo. 
Era sembrato un successo considerevole dell’arcaica bioingegneria dell’epoca l’avere innalzato “oltre i tre secoli” l’attesa di sopravvivenza dei cloni destinati a popolare Marte. In un soprassalto di orgoglio creatore, avevano commesso l’errore di tentare la creazione d’individui perfetti: più di tre metri di statura, vista, udito e olfatto enormemente potenziati una memoria da Pico e un cervello da Leonardo e una longevità media che superava il mezzo millennio. 
Come se non bastasse avevano completamente trascurato i dispositivi di sicurezza. In quegli eterni giovanottoni da record, grandi grossi più di un grizzly e più longevi di Matusalemme, non avevano infilato neppure un interruttore biologico: un virus letale assopito, ma scatenabile in caso di necessità o almeno qualche tara psicologica su cui far leva attraverso tabù, sensi di colpa, peccati e tutto il resto dell’armamentario tradizionale che i potenti di tutti i tempi avevano adoperato con successo. 
Quando la loro tranquilla laboriosità non fu più sufficiente ad appagare le ambizioni produttivistiche della Compagnia, i megantropoi divennero un’autentica grana. Una grana immortale. 
A differenza dei loro rudimentali progenitori i pionieri si erano mossi sui nuovi territori con prudente rispetto per il nuovo ambiente, dimostrando inoltre grande solidarietà reciproca di fronte alle difficoltà e insospettabili capacità d’iniziativa. La ripetizione di una loro provvidenziale autodistruzione come quella avvenuta sulla Terra era da escludere.

Il discobolo di Mirone

Organizzati in piccole comunità federate e pacifiche per più di quattro secoli i coloni avevano mantenuto rapporti di considerevole autonomia e reciproca soddisfazione con la vecchia dirigenza e tutto avrebbe continuato a filare liscio se il nuovo gruppo manageriale non avesse voluto imporre un salto di produttività per dimostrare la propria efficienza.
Che la scomparsa del crepuscolo fosse l’inizio di una nuova tappa nel braccio di ferro con la Compagnia lo sospettavano in molti su Marte, ma nessuno osava confessare che il peggio forse sarebbe sopravvenuto con l’avvento della  notte. Forse l’ultima per la colonia. 
Quanto valeva la loro sopravvivenza agli occhi dei giovani dirigenti, dopo lo scorno dei venusiani spariti? Non era più un segreto, almeno per i più informati, che la corrente degli insettisti era uscita rafforzata dall’episodio e nella Dieta ormai prevaleva largamente sulla vecchia guardia degli umanisti. 
A grandi linee le loro posizioni erano note: perché mai gli operai di Marte  -dei minatori, in definitiva- avrebbero dovuto essere creati ad immagine e somiglianza dei loro dei? Che senso aveva impiegare e, soprattutto mantenere, lussuosi cloni umani rettificati per svolgere compiti che economici blattiformi giganti sarebbero stati in grado di eseguire perfettamente, sotto la guida di capi squadra sintetici della nuova generazione? 
In nome di quali fisime romantiche gli organici avrebbero dovuto essere gerarchicamente superiori ai sintetici, quando il loro costo di produzione o riproduzione, era molto inferiore? Che cosa si poteva pretendere di meglio di quegli ottimi scarafaggioni? Docili, pazienti, non si guastavano mai e quando alla fine schiattavano per il superlavoro e la denutrizione si erano lasciati alle spalle una miriade di loro simili pronti a rimpiazzarli. Il tutto volontariamente e a costo zero. Nessun altro sintetico o tanto meno organico umano si era dimostrato alla loro altezza. Scavare, trascinare, stivare fino alla morte con quelle loro instancabili zampette frenetiche sembrava la loro unica ambizione. 
Dopo gli episodi di cannibalismo a danno dei venusiani, i dirigenti “umanisti”, ormai soccombenti, si erano ritrovati a malpartito e non avrebbero potuto opporsi all’operazione “Crepuscolo zero” neppure se avessero saputo quanta saggezza e disperazione aveva sostenuto i coloni umani nella loro nobile decisione che, per ironia della sorte, li avrebbe condotti alla fine anziché alla salvezza. 
Neppure quando il sole sparì con un balzo, inghiottito dalla notte ci fu spazio e tempo per pentirsi. 
I megantropoi erano troppo vecchi e saggi per non sapere che la moneta cattiva caccia la buona, sempre e inesorabilmente. La loro risoluzione di sopprimere i nuovi cugini venuti da Venere era stata inevitabile e unanime, mentre più difficile e sofferto era stato decidere di “non lasciarne traccia alcuna”. 
Con profondo senso civico li avevano suddivisi in piccole parti e se li erano spartiti e inghiottiti, uno dopo l’altro, come il più amaro farmaco di sopravvivenza per la loro comunità intera, maledicendo ogni boccone di quella repellente polpa mucillaginosa e tremolante. 
Ma quando il sole sparì con un balzo, inghiottito dalla notte, seppero che neppure tanto eroico sacrificio era bastato, forse. Il loro sarebbe stato un tramonto definitivo, senza neppure la dolcezza del crepuscolo.

Questo racconto è stato pubblicato nel 2009 nel mio libro cartaceo “Capo e coda”

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