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Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) sab 31 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
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Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 30 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 29 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mer 28 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 27 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) sab 24 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Libro VI - La leggenda di Teodorico:
"...Da la Chiusa al pian rintrona Solitario un suon di corno,
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 22 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) lun 19 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Nella foto la mia "storica" poltrona a dondolo di bambù
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) dom 18 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 16 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Parcheggio di biciclette in un bagno sul mare Adriatico il 15 Agosto 2019
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 15 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Nell'immagine una composizione fotografica di disegni di mia nipote Marguerite Leonard
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 13 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Nell'immagine una mia composizione fotografica
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) dom 11 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) sab 10 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 09 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Chiudo questa piccola serie "pipae,piparum, pipis" con la citazione da un mio vecchio post "Le venature della sorte" del dicembre 2004 che potrai leggere per intero cliccando qui seguita da una filastrocca che ritrovi nel post del 5 sttembre 2003 "... una pipa sempre in bocca e guai a chi la tocca"
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Con il passare degli anni, aveva imparato a leggere anche la venatura delle pipe. Di alcune, improvvidamente ricavate da ciocchi disgraziati, aveva facilmente previsto la sgradevole natura o la precoce vocazione al suicidio: si nascondevano in tasche dismesse fino alla sparizione finale o si buttvano dal terrazzo su uno dei pochi sassi ornamentali del giardino, spezzandosi il collo irrimediabilmente o, addirittura, si catapultavano direttamente dalla tasca in un tombino fognario, azzeccando un'improbabile fessura, apparentemente incapace d'inghiottirle.
Nella meravigliosa vena ascendente di una pipa fiammata, conica, di media capienza aveva, invece, scorto un destino felice, una predisposizione contagiosa alla felicità, forse all'immortalità. Era ben raro che non fosse presente fra le quattro o cinque pipe che solitamente popolavano le sue tasche e non se ne sarebbe separato per nessuna ragione. Quando la sua mano, pescando distrattamente in una delle tasche, la estraeva per caricarla e fumarla, era certo che si sarebbe goduto una bella pipata, senza brutti pensieri. Da vecchio aveva quasi dovuto smettere, per le pressioni di medici e famigliari sobbillati da paranoiche campagne di dissuasione al fumo, ma ogni tanto una buona fumata nella pipa del destino continuava a concedersela, incurante di rimbrotti e lamentele, finché la rottura di un femore non lo costrinse in ospedale. Secondo il chirurgo, doveva trattarsi di una degenza breve e senza problemi e tale sarebbe stata se un'inflessibile caposala, animata dalle peggiori intenzioni di far bene, non avesse confiscato la sua pipa dal cassetto del tavolino, dove il nipote premuroso che lo assisteva l'aveva deposta, ben consapevole dell'importanza vitale nascosta nelle sue venature. Qunando, al risveglio precoce dall'anestesia, nel tentativo di ricostruire la mappa della nuova situazione e trovare un segno della sorte che lo attendeva, volse il suo sguardo dalle pareti bianche ed anonime della stanza al tavolino, per leggerne le venature, dovette constatare che non ne aveva. Non era altro che una triste parodia di tavolo, ricoperto da un laminato mortalmente amorfo. Con impazienza, si girò allora per cercare la sua pipa nel cassetto, staccando tubi e fili che lo impastoiavano, per trovare conforto nella sua venatura rassicurante. Quando lo vide asetticamente vuoto, non ebbe bisogno di altri segni; si adagiò sulla schiena e chiuse gli occhi malinconicamente, consapevole che di lui neppure una ceppaia sarebbe rimasta, per raccontare la sua storia ad un bambino curioso.
"Chi non fuma nella pipa non capisce la canzon" (a mio nonno) Una pipa piccolina da fumare la mattina una pipa molto scura solo in caso di paura una pipa tutta nera da fumare quando è sera una pipa fra le dita per guardare la partita una pipa sempre in bocca e guai a chi la tocca una pipa da succhiare se c'è vento in riva al mare una pipa larga e tonda se c'è calma sulla sponda una pipa con ghiera d'argento in caso di maltempo una pipa di scorta in tasca se minaccia una burrasca una pipa corta e stretta per i giri in bicicletta una pipa perduta? Non bere la cicuta una bella pipa di schiuma, beato chi la fuma una pipa figurata: meglio d'una scampagnata una pipa di radica chiara mezza dolce mezz'amara una pipa tutta d'osso, buttala nel fosso una pipa di terra rossa purché sia proprio ben cotta una pipa qualunque lasciala a chiunque una pipa da signorina lunga sottile e leggerina una pipa da vecchio bella grossa e lucidata a specchio una pipa o due rare belle solo da guardare una pipa da collezione niente fumo tutto blasone una pipa regalata ti rallegra la giornata una pipa sol per me la più buona e bella che c'è una pipa, poi un'altra e un'altra ancora finché arriva la buonora una pipa e basta.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 08 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Non ho mai conosciuto un indiano d'America in penne e ossa in vita mia. Il solo che ho incontrato era un moroso di mia figlia quando studiava ad Andover: il prestigioso college vicino a Boston . Era un ragazzo tranquillo e silenzioso; si chiamava Oni at se (Nuova Neve che scende), ma non fumava nemmeno una banale pipa nostrana. Mi sarebbe piaciuto incontrare un vecchio che avesse un kalumet tradizionale fra i suoi ricordi di antenati e sapesse dirmi qualcosa di vero su come lo caricavano e cosa mettevano dentro al fornello veramente. Si è letto di cortecce di piante dal sapore amaro, addolcite con altre meno sgradevoli e di graminacee, ma sono fonti poco attendibili. Si sa che tutte le tribù avevano uno stregone che li mettesse in contatto con il Grande Spirito quando non bastava il fumo del kalumet che si innalzava verso gli spiriti degli antenat,i ma non è mai comparsa la notizia che fra le funzioni indispensabili alla coesione e alla serenità di una tribù ci fosse un tabaccaio: un addetto a procurare le erbe da fumare dentro alla pipa sacra che tanta importanza aveva nelle tradizioni individuali e sociali degli indiani. È certo che il cannello era lungo una spanna o anche molto di più, era di legno di frassino e, solitamente, veniva ornato e impreziosito con penne, frammenti di corno di animali che venivano cacciati per la sopravvivenza della tribù. Il fornello riccamente intarsiato era di pietra scura o di alabastro. Ogni membro della tribù aveva la sua pipa personale, ma nelle importanti riunioni tutti fumavano in cerchio la stessa pipa rituale passandosela di mano in mano. Di kalumet veri ne ho visti alcuni una volta sola in vita mia, appesi alle pareti di una strana osteria in cui eravamo capitati per caso. C'erano anche frecce piumate, lance, archi e amuleti vari. Nel mezzo della sala c'era una specie di trono di cuoio con le gambe ricavate da grossi corni di bisonte. Ai tavolini dell'osteria sedevano dei veri indiani con l'aria piuttosto sconsolata. All'esterno non cavalli, ma sgangherati pick up erano i mezzi con i quali avevano raggiunto l'osteria dalle loro abitazioni nella riserva nella quale eravamo capitati senza saperlo. Mia figlia Valeria aveva terminato il suo anno di studio e mio figlio Marco ed io eravamo andati a prenderla a Boston, ma prima di rientrare a Bologna avevamo fatto un lungo viaggio di una quarantina di giorni, da nord a sud da est a ovest, negli Stati Uniti d'America, servendoci di aeroplani e auto noleggiate agli aeroporti. Durante una di queste scorribande in macchina, non lontani dal Grand Canyon, ci eravamo imbattuti per puro caso nell'osteria dei kalumet e del trono di bisonte . Nessuno dei presenti seduti ai tavoli fumava kalumet o simili e non avevano l'aria di parlarne volentieri con uno stupido straniero in vena di chiacchiere. Un 'occasione persa, insomma.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mer 07 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
L'anno dopo il soggiorno londinese di studio nella British museum library tornai nelle isole britanniche in auto con Emilia allora diciassettenne, figlia di carissimi amici di famiglia da più generazioni, che me l'avevano affidata perché cominciasse i suoi studi d'inglese, ignorato nel suo corso al Liceo classico di Correggio. Dovevamo raggiungere Edimburgo per seguire un corso estivo per stranieri. In realtà era un corso di scozzese più che d'inglese, come scoprimmo subito, tenuto da docenti dell' Università dalla spiccata pronuncia locale che non nuotavano nell'oro, a giudicare dalle giacche rappezzate e consunte di Harris tweed. I corsisti erano in buona parte adolescenti di mezza Europa, con una prevalenza di scandinavi. Ricordo una ragazza danese che durante il coffe-break fumava la pipa come me, con mia favorevole sorpresa. Quando le dissi che era la prima ragazza con pipa che avessi mai conosciuto, si sorprese. Sosteneva che in Danimarca le fumatrici di pipa erano tutt'altro che rare, anche nella sua famiglia. Naturalmente la pipa era molto diffusa anche fra i docenti, a differenza di quanto accadeva fra i professori di liceo o universitari, da noi. In tutta la mia carriera scolastica mi capitò d'imbattermi in un solo docente pipafumante: un supplente di latino e greco al liceo, mentre moltissimi fumavano sigarette. La vicenda più memorabile e piacevole del corso erano le serate organizzate per noi studenti nel Chaplaincy Center: un luogo di ritrovo universitario che sembrava una piccola chiesa protestante vagamente gotica, di quelle in legno fatte in serie; tutte uguali e disseminate nei villaggi scozzesi. In realtà, almeno per quanto riguardava noi corsisti stranieri, non vi si svolgevano attività religiose, ma s'imparavano i balli scozzesi al suono di pipes and drums, secondo la tradizione. Per un paio di ore almeno, imparate le figure obbligatorie sotto la guida di una insegnante paziente, eravamo liberi di scatenarci in balli tradizionali scozzesi a due, a tre a quattro coppie. Alle fine ero accaldato come dopo una partita di football, ma mi ero divertito molto di più. La mia passione era l' eight-some reel, così mi pare si chiamasse un complicato ballo che coinvolgeva in varie figure obbligate quattro ballerine e quattro ballerini. Quando mi capitava come partner una morettina svizzera del cantone di Coira restavo stupito del suo impeccabile aplomb alla fine delle giravolte scatenate: restava fresca come una rosa. A volte, alla fine delle danze, si cantava in coro. Ricordo la voce emozionante di una ragazza svedese quando attaccava in assolo "Cumbaya my Lord". Non era Joan Baez, ma, in quell'ambiente faceva venire i brividi. Ci ospitava nella sua casa la vedova di un ufficiale che oltre agli ospiti paganti, accudiva anche il vecchio padre vedovo. D'inverno occupavano le tre stanze studenti universitari che d'estate, quando tornavano a casa, venivano rimpiazzati da ragazzi stranieri come noi. Uno studente di veterinaria che aveva finito e stava per laurearsi si trattenne per qualche giorno mentre eravamo già presenti noi "estivi" . Era un ragazzo cordiale che c'invitò alla festa di laurea e noi, naturalmente, fummo felici di partecipare. La cerimonia si svolgeva all'aperto in modo collettivo. Tutti insieme i laureandi, con toga e tocco presi a nolo, partecipavano alla cerimonia che aveva ai nostri occhi un'aria carnevalesca, se confrontata all'austera discussione individuale della tesi presso l'Alma Mater di cui avevo un ricordo freschissimo. La padrona di casa era una donna gentile, piuttosto austera, mentre un personaggio cordiale era suo padre con il quale era doveroso trattenersi per un po' di conversazione alla fine della cena. Era un fumatore di pipa molto esperto che tirava con rilassata metodicità senza mai lasciare spegnere la sua pipa curva mentre conversava con noi. Una volta per esporci meglio la sua ammirazione per gli antichi romani, di cui elogiava le abitudini alimentari, estrasse la pipa di bocca un po' troppo allegramente e arpionò la dentiera che volò in mezzo al tavolo già sparecchiato chiudendosi con un rumore secco. Noi due ragazzi non battemmo ciglio e gli demmo tutto l'agio di raccogliere i denti e continuare il discorso come niente fosse. Naturalmente durante la passeggiata serale fino ai giardini di Princess Street, commemorammo la scena comica con le dovute risate che avevamo trattenuto con un self-control più British degli stessi britannici che ci sforzavamo di imitare, almeno per quanto riguardava la lingua. I Princess street gardens sotto l'imponente Edinburgh Castle, si animavano dopo il tramonto specialmente se c'era una banda che suonava su di un palchetto accanto alla grande pista da ballo circolare. Con un sixpence si poteva partecipare al ballo collettivo. Le coppie danzavano balli classici come il waltzer e si muovevano molto compostamente in senso orario senza intralciarsi o urtarsi ruotando come satelliti attorno ad un immaginario pianeta al centro. La passione per le bande era diffusa a giudicare dal pubblico numeroso che ne ascoltava i concerti, ma di gran lunga le più divertenti erano le marching-band di tipo militare con i suonatori in rigoroso costume scozzese: pipes and drums in kilt che suonavano inni e ballate tradizionali come "Scotland the brave": "Drums in my heart are drummin" che ancora oggi, a distanza di molti decenni, mi commuovono. A dispetto dei continui scrosci di pioggia alternati a ventose apparizioni del sole fu un soggiorno piacevole anche per la compagnia molto allegra di Emilia che si divertiva ad ascoltare i miei sogni che cercavo di ricordare per raccontarglieli al mattino durante il breakfast: il solo pasto decente della giornata.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 06 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) dom 04 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pipae, piparum, pipis (seconda parte)
Due pipe uguali di radica scura rusticata con il cannello di legno lungo ed un corto bocchino le portai a casa da Londra l'anno della mia laurea. Non erano pipe inglesi di alto lignaggio, ma proporzionate al mio modesto budget e adatte ad un principiante che volesse passare dalle sigarette alla pipa senza bruciarsi la lingua. Una delle due, infatti era destinata a mio padre che speravo di convincere ad abbandonare le sigarette e a farmi compagnia fumando la pipa insieme durante le lunghe chiacchierate che facevamo in casa o passeggiando per Roma. Il regalo fu accolto con affettuosa gratitudine ma, dopo alcuni accondiscendenti tentativi, la sua pipa restò un elegante regalino del figlio appoggiata in bella vista sui mobili di casa. Le avevo comprate da Smith, vicino al British Museum, un autentico tabaccaio di altri tempi di cui non avrei mai sospettato l'esistenza prima di capitarci dentro per caso. A quel tempo frequentavo la prestigiosa British Museum Library, allora aperta anche a studiosi internazionali, dietro presentazione di credenziali e agli studiosi accreditati erano riservate confortevoli postazioni di cuoio blu dove si potevano lasciare i libri aperti dalla mattina alla sera, anche durante la veloce pausa pranzo o la velocissima pausa-pipa. Proprio durante una di quelle pause pranzo m'imbattei nel tabaccaio a pochi passi dal museo. Come il nome, anche l'aspetto esteriore del negozio era incolore e non lasciava presagire la miniera di pipe e tabacchi che nascondeva nel vasto interno. A parte le pipe, quello che mi sorprese fu "la macchina del tabacco" su misura. Un grosso imbuto verticale terminava con una vite alla quale si poteva avvitare una classica scatola tonda vuota da riempire con la miscela di tabacchi desiderata. Il tabaccaio preparava al volo la mistura richiesta prelevando da grossi vasi la percentuale di virginia, burley, kentucky, latakia ecc. la spingeva nella scatola, avvitava il coperchio e ti portavi via il tuo tabacco su misura. Volendo, potevi far registrare le tue preferenze su di un librone che sembrava il codice atlantico e ordinare a Smith cinque, dieci scatole e fartele recapitare a casa per posta. A giudicare dalle dimensione del librone il fantastico Smith ne doveva avere di clienti affezionati. Per noi disgraziati pipatori italici era un sogno. All'epoca a fatica trovavamo dal tabaccaio gli squallidi trinciati del monopolio e, se ti andava bene, una lussuosa scatola rossa di Prince Albert o di Rivelation.
Nell'immagine la sala della British museum library
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) sab 03 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Pipae, piparum, pipis
"Chi non fuma nella pipa non capisce la canzon" Quando mio nonno mi vedeva accendere la pipa di solito mi diceva questa frase sibillina con aria scherzosa e di approvazione. Sarebbe stato inutile chiedergli una spiegazione perché non era sua abitudine fornirle per le frasi proverbiali, molte volte di difficile interpretazione, che diceva in momenti appropriati secondo il suo giudizio. Nel dopoguerra fumavano tutti, c'erano ben altre preoccupazioni nell'aria che s'imponevano all' attenzione. Per quanto ricordo, in famiglia la sola che non fumava era Luisa: la domestica di origine contadina che per me è sempre stata una nonna affettuosa. Non era certo il tipo da fare commenti, ma dalle attenzioni che poneva nel riordino delle mie pipe e alla pulizia esterna del vaso del tabacco ho sempre avuto l'impressione che ritenesse la mia abitudine di fumare la pipa, anziché le sigarette, una cosa degna di un uomo, seppure un giovane uomo in fase di formazione. Era una cosa ben fatta, come andare a caccia in valle alzandosi prima dell'alba o a pesca al tramonto, tutte cose da uomo che non andavano scoraggiate, quantomeno, in un giovane che stava cercando la sua forma. Resta il fatto, che fu la sola a regalarmi una bellissima pipa bianca di schiuma di mare nel suo lussuoso astuccio, vellutato all'interno, che io apprezzai molto. Lo ricordo bene perché non solo fu il primo regalo del genere, ma di pipe in vita mia ne ho ricevute in regalo poche, pochissime. Neppure le morose più generose e avventurose, eccetto una, si azzardavano a regalarmi una pipa. Maglioni di lana fatti a mano, camicie, cravatte, papillon, acqua di Colonia sì, ma non pipe. Mai. C'è da dire, che scegliere una pipa da regalare richiede molto coraggio, per non dire incoscienza. Neppure il criterio più ovvio: compro una pipa di marca, semplice e diritta, garantisce il successo. È più facile indovinare un terno al lotto che predire se una pipa ha l'anima buona e gentile, prima di averla fumata per qualche tempo. È, invece, abbastanza facile per un fumatore esperto, guardandola e soppesandola fra le mani, predire se una pipa non sarà gradevole da fumare. Insomma è molto più facile sapere scartare piuttosto che comprare e risulta una impresa temeraria per una ragazza affettuosa che desideri semplicemente essere ricordata dal moroso tutte le volte che fuma la pipa che gli ha regalato. Ergo pertanto il centinaio di pipe che ho in giro per casa, in vista su rastrelliere o imbucate e dimenticate in cassetti, me le sono comprate nel corso degli anni da tabaccai ben forniti e qualcuna anche direttamente da chi le fabbricava a mano. A Bologna c'era uno di questi artigiani vicino al cinema Contavalli, prima che lo demolissero, insieme alla maggioranza dei cinema bolognesi, colpiti dalla fillossera televisiva più micidiale dei bombardamenti americani durante la guerra. Era un omone cordiale e gentile con le mani d'oro. Sapeva fabbricare belle pipe nuove da ciocchi rustici di radica stagionata che riceveva dalla Calabria. Si occupava anche di pipe sinistrate rimettendole a nuovo. Ricostruiva i bocchini spezzati di ambra o di banale plastica nera, rinforzava con ghiere d'argento su misura il cannello di legno crepato e faceva tutto il resto necessario a dare nuova vita ad una povera pipa malmessa. Una pipa rotta aveva più speranze di vita portandola a lui che un paralitico a Lourdes.. Marginalmente, comprava e vendeva pipe nuove e usate anche non fatte con le sue mani. La sola cosa che non potevi trovare nella sua bottega era una pipa di scarso valore e soddisfazione. La robaccia da due soldi che gli inesperti trovano dai tabaccai improvvisati, gli spacciatori di sigarette e grattaevinci, lui non la teneva. Da lui comprai più di una pipa, tutte belle e brave. Una ottima di radica fiammata semicurva l'aveva scavata un po' troppo, ricavando un fornello molto capiente con un ingombro esterno modesto. Questa anomalia la rendeva indicatissima da tenere sempre nella tasca interna della giacca insieme alla borsa del tabacco. Purtroppo, nel corso dei decenni di onoratissimo servizio il legno troppo sottile si crepò partendo dall'alto, ma senza compromettere minimamente il piacere di fumarla. Ancora adesso è una delle più fumate, a dispetto della sottile crepa che continua ad allungarsi verso il fondo.
Con mia sorpresa un giorno trovai la sua bottega chiusa e abbandonata come il vicino cinema. Per fortuna si era solo trasferito in un negozio più grande ed elegante in un'altra strada del centro, come seppi dai negozianti vicini, sopravvissuti agli sventramenti e ristrutturazioni. Lo ritrovai nella nuova sede completamente calvo. Aveva subito una delicata operazione al cervello, ma, per fortuna, il medico che lo aveva operato lo aveva riparato con la stessa maestria con cui lui operava le pipe.
(continua)
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 01 agosto 2019 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)