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Era una giornata di quelle in cui il gatto, stirandosi sulle zampe per fare la U rovesciata e sbadigliare con più gusto, guarda fuori dalla finestra e si rimette a dormire acciambellandosi sul cuscino sulla sua impronta già calda. Niente di grandioso come un tornado o anche solo un banale acquazzone nostrano, ma una pioggerella nebbiosa, persistente come il ricordo di un cattivo odore o una maledizione con i controfiocchi. Non faceva neppure rumore, ma bagnava come dio comanda. Le aiuole, oltre i vetri, erano inzuppate e anche i fiori sembravano averne abbastanza: già innaffiati, grazie, basta così. Guardò le scarpe, in pole position davanti alla porta, per interrogarle con lo sguardo e capire se, almeno loro, avessero voglia di uscire. Non tradivano alcuna emozione. Guardò l'orologio: c'era tempo prima che l'edicola chiudesse per la pausa del pranzo. In definitiva, cosa ci sarebbe mai stato da leggere sul giornale? Aveva sentito tutti i telegiornali della sera prima, uno dopo l'altro: tutti uguali. Ormai le sorprese erano rare e anche la carta stampata sembrava destinata ad una noiosa ripetizione delle stesse veline invisibili. C'era la settimana in cui crollavano gli ascensori, quella in cui i cani mordevano all'impazzata, le mucche pazze, i polli influenti... fece un piccolo sforzo per ricordare l'argomento in voga in quel momento: la voragine di miliardi derubati da una pia famiglia, molto per bene, di confezionatori di latte. Un soprassalto di tenerezza lo colse alle spalle ricordando il primo tetrapak della sua carriera di forte bevitore di latte. Rivide la piazzetta assolata all'isola d'Elba dove erano andati a rifornirsi di cibi e bevande da caricare sul gommoncino che si trascinavano legato in vita con una lunga fune, mentre, a nuoto con maschera e pinne, percorrevano la costa frastagliata, scogliosa e deserta. Stavano in acqua finché il freddo non li co stringeva a trovare uno scoglio dove riprendere calore come lucertole. Allora era il momento di gloria del piccolo Pirelli arancione che li aveva seguiti come un tender galleggiante: c'erano gli asciugamani asciutti, qualche panino e il latte, diventato tiepido.
Ricordava come era vestita quando erano usciti dalla scura penombra del negozio nella luce abbacinante della piazzetta con tre confezioni di latte a lunga conservazione, mai visti prima. Sopra il costume indossava un vestito corto, prevalentemente azzurro, con una scollatura a taglio percorsa da un cordoncino bianco, intrecciato come i lacci da scarpe. Erano felici, di quella beatitudine solare che tocca in sorte agl'innamorati e si apprestavano alla loro odissea privata nelle acque fresche e limpide, senza altra meta o scopo che quello di godere della compagnia reciproca in un'atmosfera serena, mentre Nettuno appariva placato e privo d'intenzioni ostili. Decise di commemorare il ricordo preparandosi un te, ma in cucina trovò la caffettiera espresso ancora accesa. Aveva dimentica to di spegnerla, dopo la colazione. Non si trattava di una gran sorpresa, ma decise di approfittarne ugualmente: poteva non capitargli niente altro di meglio in tutta la giornata. Carpe diem: un buon caffè bello caldo era proprio quel che ci voleva in una mattina così buia ed umida. E così fu.
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 04 marzo 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
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Significativa veduta della celebre Philosopher walk di Nonsodove
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 02 marzo 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)
Quando ero bambino e abitavamo in una strada privata più larga che lunga, ai margini della zona universitaria di Roma, mi capitava spesso, nell'andare a scuola, di vedere una giovane donna, già molto opulenta, seduta al margine del largo marciapiedi che conduceva verso un mercato coperto rionale. Se ne stava seduta su di una robusta cesta ribaltata a mondare i suoi carciofi. Si muoveva con gesti flemmatici, ma con grande perizia, ai miei occhi. Con uno spelucchino affilato recideva gran parte delle foglie più esterne, riducendo il considerevole, pomposo volume delle mammole, che pescava da un capiente cesto al suo fianco, in torsoli quasi bianchi che prontamente sfregava con un mezzo limone, perché non si ossidassero, prima di appoggiarli su di un'altra cesta ribaltata sulla quale rimanevano esposti ai passanti per invogliarli all'acquisto. A volte, li offriva, appena pronti, alle massaie che percorrevano la strada per andare al mercato. Teneva in mano l'ultimo, appena mondato dalle sue mani esperte, come fosse una rosa. Erano dei fiori squisiti, già pronti per essere mangiati così crudi, volendo, o per essere cucinati nei modi più tradizionali con olio, aglio e prezzemolo, o squartati e fritti o in uno dei tanti altri modi che la cucina locale aveva elaborato in secoli di esperienza. Intercalava questi sui gesti lenti e dignitosi con un distratto ritornello: "Capate, capate donne. Scarciofoli freschi de Ladispoli" Curioso il latinismo, (da capere cioè prendere, scegliere) conservato nella parlata dialettale, ma perduto nell'italiano e nel romanesco urbano. Se fossero carciofi di Ladispoli e lei stesse venisse proprio dalla Maremma meridionale con una cesta di carciofi in testa, raccolti all'alba nel suo orto, è difficile da dire, ma è certo che si trattava di squisitezze già mondate che si potevano comprare con poche lire e potevano costituire, da sole, una cena gustosa, accompagnate soltanto dal pane e dall'acqua. La squisitezza dell'acqua, bevuta dopo aver mangiato i carciofi, è un'esperienza indimenticabile per chiunque l'abbia provata e rimane immutata anche oggi, quando le maestose ortolanedi Ladispoli sono rimaste soltanto una cara immagine nella memoria. Il bel disegno originale "su misura" è di Emilia
Quando ero bambino e abitavamo in una strada privata più larga che lunga, ai margini della zona universitaria di Roma, mi capitava spesso, nell'andare a scuola, di vedere una giovane donna, già molto opulenta, seduta al margine del largo marciapiedi che conduceva verso un mercato coperto rionale. Se ne stava seduta su di una robusta cesta ribaltata a mondare i suoi carciofi. Si muoveva con gesti flemmatici, ma con grande perizia, ai miei occhi. Con uno spelucchino affilato recideva gran parte delle foglie più esterne, riducendo il considerevole, pomposo volume delle mammole, che pescava da un capiente cesto al suo fianco, in torsoli quasi bianchi che prontamente sfregava con un mezzo limone, perché non si ossidassero, prima di appoggiarli su di un'altra cesta ribaltata sulla quale rimanevano esposti ai passanti per invogliarli all'acquisto. A volte, li offriva, appena pronti, alle massaie che percorrevano la strada per andare al mercato. Teneva in mano l'ultimo, appena mondato dalle sue mani esperte, come fosse una rosa. Erano dei fiori squisiti, già pronti per essere mangiati così crudi, volendo, o per essere cucinati nei modi più tradizionali con olio, aglio e prezzemolo, o squartati e fritti o in uno dei tanti altri modi che la cucina locale aveva elaborato in secoli di esperienza. Intercalava questi sui gesti lenti e dignitosi con un distratto ritornello: "Capate, capate donne. Scarciofoli freschi de Ladispoli" Curioso il latinismo, (da capere cioè prendere, scegliere) conservato nella parlata dialettale, ma perduto nell'italiano e nel romanesco urbano. Se fossero carciofi di Ladispoli e lei stesse venisse proprio dalla Maremma meridionale con una cesta di carciofi in testa, raccolti all'alba nel suo orto, è difficile da dire, ma è certo che si trattava di squisitezze già mondate che si potevano comprare con poche lire e potevano costituire, da sole, una cena gustosa, accompagnate soltanto dal pane e dall'acqua. La squisitezza dell'acqua, bevuta dopo aver mangiato i carciofi, è un'esperienza indimenticabile per chiunque l'abbia provata e rimane immutata anche oggi, quando le maestose ortolanedi Ladispoli sono rimaste soltanto una cara immagine nella memoria.
Il bel disegno originale "su misura" è di Emilia
Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) lun 01 marzo 2004 Invia un commento all'autore "Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)